Intervista video alla grande artista Grazia Varisco
Stefania Gaudiosi è artista, curatrice e promotrice culturale. Artribune presenta il suo progetto “L’arte è un delfino”, un ciclo di video-interviste per riflettere sull’arte e la cultura del nostro tempo. Questo appuntamento vede protagonista l’artista Grazia Varisco
A voler stare nelle definizioni, la grazia è una qualità che conferisce alle cose o alle persone un’impressione di bellezza, delicatezza, eleganza, freschezza. Può essere anche una caratteristica attribuita alle opere create dall’arte o dall’ingegno umano. In ambito religioso, rappresenta il favore divino, l’atteggiamento di benevolenza che Dio o una divinità mostra verso l’umano, che sia un individuo o una collettività.
Credo si possano mettere assieme liberamente tutte queste cose e farle risuonare a piacimento, per provare a intuire il senso di quelli che Grazia Varisco (Milano, 1937) chiama, con l’acume giocoso che informa tutti gli apparati descrittivi della sua opera, “stati di grazia”.
Sono i momenti – rari – per i quali vale la pena condurre la propria ricerca artistica, sperimentare forme e soluzioni, porsi in dialogo poetico con il mondo e con le cose.
“Mi rendo conto che ogni volta espongo il mio lavoro in una collettiva. Una collettiva di me stessa”, aggiunge, sottolineando l’attitudine a rapportarsi con le molteplici, “infinite visioni” che, con il termine Miriorama, il Gruppo T, del quale ha fatto parte dai primi anni ’60, definiva la propria poetica, centrata sull’idea della variazione – potenzialmente infinita – dell’immagine nella sequenza temporale.
Ed era solo l’inizio, perché il lungo percorso artistico di Grazia Varisco l’ha condotta oltre e altrove, verso un orizzonte di ricerca personale denso, profondo, sorprendente e fecondo. Ma cominciamo dal principio.
“Perché io no?”: gli esordi nel Gruppo T di Grazia Varisco
“Artista, dicono… e io me la godo! Perché la parola “artista”non mi chiude in un’attività definita e limitata, mi concede uno spazio più ampio e libero, anche perché vale ugualmente al maschile e al femminile e non è poco, ancora oggi”.
Sono queste le parole, sue, riportate nell’Archivio Varisco. Ci sono almeno due idee molto importanti in questa frase: la libertà di cui dispone un artista e il fatto che “artista” sia una parola neutra, che va bene sia per il maschile che per il femminile. L’unica differenza è nell’apostrofo dell’articolo indeterminativo, dirà. E non è poco, ancora oggi, appunto.
Il Gruppo T si costituì a Milano nell’ottobre del 1959, a opera di Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi, a cui si aggiunse subito dopo Grazia Varisco.
Subito dopo, ma non subito. Fu necessario rompere l’esitazione dovuta al torpore culturale del tempo – che Grazia chiamerà, scagionando i compagni del gruppo da qualunque possibile accusa, “condizionamento” – che ancora esiliava le donne dalle esperienze ufficiali.
Pur avendo partecipato attivamente alla sua realizzazione, la prima mostra non la vide tra i componenti del gruppo, cosa che la spinse a chiedere “perché”, e sappiamo bene che certi “perché” racchiudono tutto un mondo di valori, di idee e di influenze, finché qualcuno non ci mette accanto un punto interrogativo, capace di scardinare la prassi con il dubbio.
L’arte, che è cosa viva, lavora in profondità, penetra nelle pieghe della società, anche quando non lavora direttamente su di essa. È la forma stessa di ciò che produce che, cambiando la nostra mente, cambia il mondo.
Il corpo come campo dei sensi
Il mio personale interesse per l’Arte Cinetica, che mi spinge a dialogare con gli artisti che l’hanno praticata, nasce dal bisogno di strutturare coscientemente i rapporti causali alla base della percezione e sviluppare un’attitudine alla meraviglia veicolata da sensi “reattivi”, quindi attivi e non passivi.
Lo dice bene, in una sola formula, il titolo della mostra che si tenne nel 1965 al Museum of Modern Art di New York (MoMa), The Responsive Eye, una delle esibizioni simbolo degli anni sessanta, che celebrava le esperienze dell’arte ottica, poi divenute Op Art, e dell’Arte Cinetica e Programmata, appunto (a cui Grazia non parteciperà, perché in attesa del suo primo figlio).
Tra tutte le forme contemporanee, più di tutte quest’ultima si avvale di un rigoroso metodo progettuale, cosa che la rende vicina alla scienza, ai suoi archetipi.
La maggior parte degli artisti cinetici si sono infatti dedicati anche all’architettura e al design (Grazia Varisco lo farà con il design grafico, in un’importante esperienza in Rinascente), ma soprattutto hanno informato le loro opere di teorie feconde, provenienti dai più svariati ambiti della conoscenza.
Grazia Varisco, per molti anni ha insegnato Teoria della percezione all’Accademia di Brera. La sua è, dunque, un’arte d’avanguardia, ma anche un’arte “didattica”, che compie persino un processo di demistificazione del suo stesso ruolo nella società, per offrirsi come strumento, anche politico, di creazione poetica.
“La percezione è un’esperienza che mette in atto uno scambio di informazioni. Il corpo, attraverso questi meccanismi avverte, riceve e reagisce agli stimoli. Lo studio delle possibilità percettive esamina fenomeni in cui il dubbio e l’ambiguità prendo forma (Gestalt) in modo incerto e illusorio”, scrive.
Da queste considerazioni nasceranno intere serie di opere (i Silenzi, i Quadri Comunicanti, la RotoReteRossa…) e, poi, nel 2016 la mostra dal titolo Il corpo come campo dei sensi al Museo di Arte contemporanea di Lissone, che ha raccolto i suoi lavori più recenti.
Il “se” del caso
Tanti temi importanti fanno da trama al lavoro artistico di Grazia Varisco, ma è significativo il suo riferimento a un testo chiave: Il caso e la necessità di Jacques Monod. Il rapporto tra programmazione e caso è forse, di fatto, il protagonista principale, più che quello tra spazio e tempo. Il caso può presentarsi in molte forme: le forze fisiche lasciate agire, lo spettatore che diventa “interattore”, l’artista stesso che immette nel programma un “errore”, come un piccolo baco che dimostra in negativo la resistenza del sistema che attacca, innescando forze, sprigionando energie dinamiche e dialettiche, agendo da detonatore poetico.
Così nelle Extrapagine, dove la piega inavvertita su una pagina di quaderno da errore diventa espressione. L’irrompere del caso sul programma è, a ben vedere, lo spazio di libertà del cosmo, che si manifesta attraverso l’entropia, perché tutto tende al disordine, contro il solo ordine possibile insito nel programma.
Le Tavole magnetiche ci mostrano come anche il tempo è soggetto al caso, offrendoci degli spunti quasi zen. Il tempo delle Tavole magnetiche non è un tempo astratto: è il tempo molto concreto dell’esserci, qui e ora, in un’irriducibile “impermanenza” che possiamo afferrare solo nell’esperire il prima, il durante e il dopo. Impermanenza è la chiave per accogliere il cambiamento, e forse il cambiamento più difficile da accettare è quello che determiniamo con le nostre scelte.
Nel riconfigurare le forme essenziali, i punti e le linee, sulla superficie delle Tavole magnetiche, come a volersi divertire stravolgendo la composizione di un acquerello di Kandinsky, si esperisce un cambiamento il cui fine può tendere all’ordine oppure al disordine, e ci fa interrogare sulle scelte possibili, ce ne rende responsabili: collocare gli oggetti in uno spazio non è mai stata una questione irrilevante per l’umano. Molte cose possiamo sapere di noi dalle scelte che facciamo, anche laddove si tratti di organizzare un’astrazione.
La poetica degli oggetti
In Miti di oggi, nel paragrafo dedicato all’automobile Citroën DS – mitica appunto per l’epoca, siamo sul finire degli Anni ‘50 –, Roland Barthes mette tra parentesi questa frase: “Il tatto è il più demistificatore dei nostri sensi, al contrario della vista, che è il più magico”; quasi fosse un inciso di poca importanza. Questa frase è migrata spesso, isolata, altrove ed è recentemente approdata nel bel saggio del filosofo Byung-Chul Han, dal titolo Le non cose, come abbiamo smesso di vivere il reale, che me l’ha rammentata proprio mentre cercavo una chiave per interpretare il lavoro artistico di Grazia Varisco.
Mi sono avvicinata all’arte Cinetica e Programmata anche perché avevo bisogno di ricostruire il senso di un rapporto fragilissimo – quello tra gli umani, gli oggetti e i progetti, che sono un ponte tra questi ultimi – che sentivo sull’orlo di una crisi epocale, ed ecco che il filosofo ne annuncia il definitivo collasso: il mondo degli oggetti ha ceduto il passo al mondo delle informazioni, delle “non cose”. Il reale è stato quasi del tutto assorbito dal virtuale. Alla fattualità del possesso, si è sostituita l’esperienza dell’accesso alle esperienze e, pertanto, “abbiamo perso il contatto con il reale”.
L’opera di Grazia Varisco credo si collochi sulla linea di confine tra queste due regioni, quella dei fatti e quella delle esperienze. Intanto le opere sono “oggetti” (perché non sono più dicibili con le parole solite dell’arte: non sono quadri, non sono sculture…) e sono portatrici di un’indiscutibile concretezza, di un peso materiale non indifferente, fatto di legno, vetro, acciaio, magneti, telati, carta. Eppure sono dispositivi leggerissimi che si attivano in “superficie” per offrirsi come esperienza estetica solo se agenti casuali interagiscono con essi, funzionando come “imprevisti programmati” all’interno del sistema.
Ed ecco che l’arte da oggetto si fa esperienza. Senza esperienza l’oggetto resta inerte. Per tornare a Barthes e al potere “demistificante” del tatto, un’istruzione fondamentale per i visitatori delle mostre del Gruppo T era questa: “si prega di toccare”.
Ciò conferma che le opere sono fatti, prima ancora che esperienze estetiche, oggetti d’uso “poietici”, e innescano un processo di demistificazione immolandosi alla curiosità tattile del fruitore (che non è più solo spettatore), per troppo tempo esiliata nella distanza del “guardare ma non toccare”. Tutti i sensi sono chiamati a raccolta a dissacrare l’impero del visibile, per ristabilire un equilibrio sensibile.
Nell’epoca della digitalizzazione, in cui perfino l’oggetto d’arte, attraverso l’irrompere controverso degli Nft, si trasforma in informazione, in un bit, in un niente, tornare al tatto, riscoprirne i valori, è un esercizio di memoria esistenziale, che ci permette di non perdere facoltà cognitive.
Le opere di Grazia Varisco ci offrono anche questo: un’altra possibilità per stabilire rapporti col reale, per ritrovare un contatto.
Che la bellezza sia intoccabile, che di fronte all’elevato sia necessario arretrare, stabilire una prossemica elusiva, è solo uno dei possibili atteggiamenti nei confronti delle cose. Che torni ad essere tangibile, invece, come tangibile è il mondo di chi vuole ancorarsi alle cose come fosse la prima volta, come tornando bambini, come giocando, perché sempre la conoscenza chiede menti capaci di tornare curiose e vuote, ancora una volta.
Buona visione.
Stefania Gaudiosi
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