Intervista all’artista Andrea Mastrovito: sperimentazione, disegno, passato e presente
Tra una mostra a Spoleto, un'opera acquisita a Bergamo e le incisioni a Tortona, l'artista bergamasco ci parla del suo dialogo con la storia dell'arte, del rapporto con le Americhe, del disegno e dei santuari. Perché “l'artista è naturalmente inclinato verso il sacro e i suoi spazi”
È un momento di grande attività per l’artista Andrea Mastrovito (Bergamo, 1978): la GAMeC – Galleria d’arte moderna e contemporanea di Bergamo ha appena acquisito una sua grande installazione, che ha presentato al pubblico lo scorso 17 ottobre; ha un’ampia personale attiva a Spoleto all’interno della Galleria Marca Corona, brand di ceramica che ogni anno promuove l’arte coinvolgendo un autore del panorama nazionale (Giuseppe Stampone nel 2022, Stefano Arienti nel 2023); e ha appena realizzato delle incisioni in un santuario a Tortona. Ma cosa unisce tutte queste spinte? L’abbiamo chiesto a lui.
L’intervista all’artista Andrea Mastrovito
La tua grande opera acquisita dalla GAMeC è una citazione diretta di Goya: come il tuo percorso si intreccia al suo, quali le domande (e le risposte) in comune?
Il titolo, Tristes presentimientos de lo que ha de acontecer, corrisponde a quello della prima tavola de I disastri della guerra del grande maestro spagnolo, dove una figura in ginocchio, coperta di stracci, riprendendo l’iconografia tradizionale del Cristo negli Ulivi, volge gli occhi al cielo alle soglie della notte. Questa stessa figura è ripresa nella mia opera, anche qui in un punto liminare, quello più scuro di tutta la composizione, là dove finisce la parabola del presente e comincia il presagio del futuro. Goya ha accompagnato il mio percorso sin dai primissimi giorni dell’Accademia: ricordo ancora una teletta di 50×50 cm in cui, per imparare a dipingere (male) a olio, cominciai a riprendere Il Colosso di Goya. Venivo da una formazione piuttosto classica e letteraria, poco pittorica, i miei eroi erano Camus e Baudelaire. La continuità tematica e di immaginario tra Baudelaire e il pittore di Fuendetodos fece sì che fosse proprio l’opera di Goya a venirmi in soccorso.
Un incontro determinante.
Mi fu subito chiaro che l’arte non è letteratura, anzi, e anche di questo devo rendere merito al genio di Goya, il quale affidò soprattutto alla sua opera grafica, da I disastri a I Capricci, dalle Tauromachie alle Follie, i suoi più profondi sentimenti, lasciando che fossero il segno e il disegno a esprimere il suo pensiero anni prima dell’olio e della pittura. Al contempo fu un artista capace di preconizzare sia l’impressionismo (con la Lattaia di Bordeaux) sia l’espressionismo (con i sublimi dipinti de La quinta del sordo) con quasi un secolo d’anticipo: questa sua continua spinta è per me grande fonte d’ispirazione. Goya fu pienamente uomo del suo tempo, ne fu testimone, cronista, quasi fotoreporter: oggi l’artista non ha più la necessità di documentare quanto succede nel mondo – bastano le miriadi di telecamere che ci circondano e teniamo in tasca – ma ha ancor più l’obbligo di documentarne l’essenza.
Andrea Mastrovito e il rapporto con gli artisti del passato e del presente
Questo dialogo rientra in una più ampia attitudine che hai nei confronti degli artisti, storicizzati e non.
Negli anni ho cominciato a pensare a tutti gli artisti come…a degli amici, con cui intrattenere continuamente delle conversazioni. I temi spaziano soprattutto su quello che ci interessa di più, ovvero la vita in tutte le sue sfaccettature, dall’amore al sesso, dalla gioia alla sofferenza sino al tema “più importante tra quelli meno importanti” – come diceva Sacchi –, il calcio. Per questo circa otto anni fa ho cominciato la serie di opere Conversazioni ragionate, tavole in cui il disegno fa da collante tra oggetti presi dal mio tavolo di lavoro e testi illustrati riguardanti tutta una serie di artisti con cui “intrattengo un dialogo”.
Con chi hai ragionato?
Di queste Conversazioni ne ho realizzate parecchie decine, partendo dalla prima con il celebre ciuffo d’erba di Albrecht Dürer per poi proseguire con Bacon, Boetti, Holbein, Schifano, lo steso Goya, Calder, Munch, Muybridge, Penone, Fischer, fino a realizzare grandi “conferenze” in cui i testi d’arte si mischiavano a qualsiasi altro oggetto o testo, creando composizioni complesse come A brief history of our century according to the stuff on my desk (2019) o addirittura opere gigantesche che si dipanavano lungo decine di metri, come Symphony of a Century (2018), tra storia privata e Storia del mondo. A tutti questi “dialoghi” immaginari non posso non aggiungere quelli reali, che negli ultimi anni hanno preso forma da The Drawing Hall, lo spazio no-profit dedicato al disegno italiano contemporaneo che ho fondato nel 2021 a Bergamo assieme a Marco Marcassoli e Walter Carrera. È proprio un dialogo, inizialmente basato sul disegno ma che pian piano permea tutta la nostra esistenza: abbiamo coinvolto Stefano Arienti, Gian Maria Tosatti, Luisa Rabbia, Ian Tweedy, Eugenio Tibaldi, Alessandro Pessoli, Oscar Giaconia e, proprio in questi giorni, Marzia Migliora. Quale miglior modo di dialogare con altri artisti se non attraverso il loro lavoro?
L’artista Andrea Mastrovito, le Americhe e gli spazi sacri
Come il periodo di residenza in Argentina ha influito sulla tua ricerca artistica?
Tristes presentimientos de lo que ha de acontecer è la summa di un percorso sul disegno intrapreso sul disegno una decina d’anni fa. Ci stavo pensando da diverso tempo e quando con GAMeC e Fundaciòn Proa si è concretizzata la possibilità di un solo show al termine della residenza programmata, l’idea ha immediatamente preso forma. Lo spazio del Proa21, e soprattutto l’ambiente della Boca di Buenos Aires, si prestavano perfettamente a quell’operazione che deve le sue radici ai miei 15 anni di vita newyorkese. Sia l’assemblage sia l’interesse verso il rifiuto, lo scarto e la tendenza a dipingere/disegnare su qualsiasi superficie sono abitudini artistiche americane: nel mio studio sopra Central Park su Amsterdam Avenue, tutti i mobili erano stati trovati per strada, ripuliti (poco) e riutilizzati (molto).
E come ti è venuto in soccorso il disegno in tutto questo?
In quest’opera è visibile proprio quel passaggio su cui insisto spesso, ovvero della matita come mediatore tra il mondo ideale e quello reale: da un lato il disegno come collante fra gli oggetti, il disegno come idea, dall’altro questa miriade di frottage tridimensionali vomitati dal buio del grande armadio finale, il disegno come realtà oggettiva, anzi oggettuale che, piegando il foglio al suo passaggio, mostra i prodromi della cosa, la res, che sarà.
Bergamo, Bruxelles e ora Tortona: da dove nasce la tua inclinazione verso i santuari, e come si esprime la tua riflessione all’interno di questi spazi?
Credo che l’artista sia naturalmente inclinato verso il sacro e i suoi spazi. L’arte dell’Occidente affonda le proprie radici nel pensiero cristiano, nasce con le prime raffigurazioni medievali del Cristo in croce, laddove il sacro e il sublime, tra sofferenza e grandezza, si manifestano. Nel sottile equilibrio tra la narrazione della fede e l’interpretazione della stessa nasce il concetto consapevole di arte, distaccandosi sia dall’artigianato sia dalla letteratura e prendendo una vita propria che, nei secoli, la porterà a distaccarsi dalla Chiesa e dal concetto stesso di narrazione. Ma fondamentalmente le chiese e gli spazi sacri sono stati per centinaia di anni le palestre e anzi i campi da gioco di schiere di migliaia di artisti. Mestieranti del pennello o dello scalpello in molti casi capaci di reinventare quelle storie di santi e sante forzando e spostando il limite ogni volta un po’ più in là, sino a fare quel famoso “buco nel muro” di masacciana memoria.
Come applichi questa reinvenzione?
Il grande intaglio murale pensato per le otto nicchie absidali della cripta del Santuario di Tortona è l’ultimo di una serie di lavori realizzati con questa tecnica di scavo iniziata nel 2009 presso Analix Forever a Ginevra. È stato del tutto naturale: i mattoni che costituiscono la cripta sono lasciati a vista, senza intonaci o altri rivestimenti, gli unici punti intonacati erano proprio le otto nicchie che si sono prestate all’intervento distruttivo tramite martello e scalpello. Le rovine così create raccontano il forte legame tra gli interventi salvifici di San Luigi Orione e i terremoti che afflissero il paese a inizio Novecento. Quanto ho messo in scena è esattamente l’opposto di quanto realizzato nella chiesa dell’ospedale San Giovanni XXIII a Bergamo, dove lo spazio del sacro è proprio quello al di là dell’abside, col calvario, il Cristo e l’Addolorata, mentre lo spazio al di qua è lasciato all’uomo ed alle sue gioie e sofferenze (essendo una chiesa annessa a un ospedale).
Incisione, intarsi, frottage: la sperimentazione mediale è una cifra della tua produzione. Come hai sviluppato questi interessi, e ci sono nuovi esperimenti all’orizzonte?
Sì assolutamente. Spesso mi capita di riattivare tecniche antiche o desuete e trovo che sia strano che nessuno ci abbia pensato prima: un po’ come i Queen quando nel 1977 scrissero We Are the Champions e si chiesero come mai nessun gruppo rock avesse mai pensato a scrivere un inno sportivo in un momento storico in cui tra l’altro le rockstar cominciavano a riempire gli stadi. Così io mi guardo attorno – la bergamasca è un territorio ricchissimo di grandi realtà artigiane – e trovo un mondo di possibilità in persone e aziende che custodiscono tecniche antichissime mettendole in pratica con metodologie moderne. A quel punto intervengo, cercando di piegare il prodotto della macchina affinché torni ad avere manualità. La ricerca del nuovo in fondo all’ignoto deve essere il motore che spinge le persone in generale: per questo ci sono molti esperimenti in vista, sia a livello tecnico/plastico (in studio, tra l’altro, stiamo lavorando a nuovi alberi intarsiati che miracolosamente stanno dando ottimi risultati) sia a livello di collaborazioni e progetti con diverse realtà, dalla musica all’architettura, dall’enologia allo sport. Sarebbe fantastico se le giornate durassero 72 ore…ma purtroppo ars longa, vita brevis!
Giulia Giaume
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