Anti-illustrazione. Il Terzo Purgatorio di Gabriele Arruzzo in mostra da Simóndi a Torino
Per la sua mostra l’artista sfodera (e assembla) un archivio di immagini, ricavate dai repertori dell’incisione. Finissage il 21 dicembre alle 17.30 con un dialogo tra Arruzzo e Vincenzo Valenti ispirato a Roland Barthes
Come spesso accade nell’interpretazione delle opere contemporanee, le linee e le forme apparentemente più semplici, che paiono nate da un comune rimando all’arte pregressa o a una maniera di intendere il mondo ormai parte della vulgata, in realtà celano un complesso reticolo di riferimenti, rielaborazioni, studi e maneggiamenti attualissimi. Un esempio è il corpus di Gabriele Arruzzo (Roma, 1976), pittore avvezzo all’ambiente dell’arte torinese che in occasione della sua ultima personale Terzo Purgatorio presso la galleria Simóndi sfodera un archivio di immagini, ricavate dai repertori dell’incisione soprattutto otto e novecentesca, assemblate in un gioco di emulazione e dissimulazione del tratto xilografico.
Il Terzo Purgatorio di Gabriele Arruzzo
Con Terzo Purgatorio, Arruzzo conduce (forse citando il Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto?) l’osservatore in un itinerario denso di enigmi visuali, dove la pittura non è mai uno strumento di svelamento, ma un processo di camuffamento – o quantomeno di doppiezza. In tal senso, le opere sono definibili “anti-illustrazioni”: se, infatti, l’illustrazione accompagna un testo chiarendo il suo contenuto letterale, dispiegando il linguaggio metaforico e aggiungendo una particolare “atmosfera” sensoriale che il lettore dovrebbe, secondo l’autore e/o l’editore, fare propria, le composizioni di Arruzzo destabilizzano, assemblando frammenti esegetici estratti da contesti anche in contraddizione tra loro, rendendo il soggetto segreto, occultato e a volte addirittura intraducibile in un’accezione univoca. Il significato è “sospeso”: esattamente come anime purgatoriali in cerca di compimento – un senso ultimo e definitivo che le consacri e le elevi in modo definitivo – le tele restano in attesa di una soluzione esatta.
La mostra di Gabriele Arruzzo da Simóndi
Il ciclo esposto nelle sale di Simóndi, dipinto fra il 2023 e il 2024, sigilla un momento di maturazione nonché di profondità tematica; la cifra stilistica dell’anti-illustrazione si è definita con assunti inderogabili, ovvero rimanere in bilico sul sottile limine della spiegazione plausibile, senza linearità interpretativa, tramutandosi in appannaggio quasi esclusivo dell’artista.
Le dieci tele che compongono il ciclo si dispiegano come enigmi visivi. Il tratto, che allude a quello tipografico per eccellenza, smantella le narrazioni che la grafica traduceva sul libro stampato o sul manifesto. Per esempio, in XYZ (o delGrande Altro) tre figure enigmatiche ritagliano uno spazio cartesiano sommerso; un rompicapo che riflette sul concetto lacaniano del “Grande Altro”, ovvero “la struttura simbolica che definisce l’uomo in quanto animale culturale” e che diventa metafora della pittura stessa, intesa come linguaggio collettivo e non come espressione puramente individuale. Un tema ricorrente è la sovrapposizione tra la figura dell’artista e quella dell’osservatore. In Senza titolo (cominciare perfinire per ricominciare, sempre) la tela diventa un dispositivo specchiante: l’opera guarda chi la guarda, in una mise enabyme che mette in discussione la tradizionale dicotomia tra creatore e spettatore.
Il mestiere dell’artista secondo Gabriele Arruzzo
È una riflessione sul mestiere stesso di dipingere, che Arruzzo esplora con un’ironia sottile e una consapevolezza malinconica, come lui stesso spiega: “è il primo lavoro che ho concepito per questa mostra e da qui il titolo tra parentesi che sottolinea la coazione a ripetere della disciplina pittorica. In termini musicali si definirebbe un’overture e il quadro stesso è concepito come la messa in scena di un rito propiziatorio per un quadro da cominciare. La tela poggia su un tronco tagliato che fa da cavalletto e in questa sintesi c’è tutta la romantica impossibilità del rapporto tra arte e natura”. La malinconia è uno dei fili conduttori del ciclo, poiché principale responsabile della frammentazione onirica del messaggio. In Melancolia 2023 (o del desiderio, della distanza e della mancanza di un testimone), l’artista intreccia gioca con coordinate cronologiche micro- e macrobiografiche, lasciando convivere due temporalità in uno spazio comune: da una parte, una donna che scruta l’orizzonte, rischiarando con un lume il buio circostante; dall’altra, una figura distesa – sognante, in estasi o morente? – sull’orlo del burrato. Arruzzo cattura qui il senso di perdita e di desiderio che permea l’atto creativo, con un linguaggio che rimesta simboli.
L’autobiografismo nell’opera di Gabriele Arruzzo
L’impatto della mostra risiede altresì nella sua capacità di affiancare momenti di riflessione personale a momenti di riflessione sociale. Per l’autobiografismo, il campione è Passivo-aggressivo, mi ritiro a dipingere un quadro, che richiama ironicamente il celebre titolo di Mimmo Paladino, dove il processo pittorico diventa rifugio e affermazione. Senza titolo(elegia per G.C. [Giulia Cecchettin] e tutte le altre, per quel che vale) affronta il tema del femminicidio, portando sulla tela un’urgenza etica che Arruzzo elabora con una delicatezza che non smorza, anzi amplifica, l’ingente portata del tema. Afferma l’artista: “il caso del femminicidio della ventiduenne G.C. per mano del suo fidanzato nel novembre del 2023 ha avuto, più di altri casi analoghi in Italia, una grande eco mediatica che mi ha portato a farmi delle domande innanzitutto come uomo e poi, come pittore, ho sentito la necessità per quanto limitata e futile ad elaborarle con l’unico mezzo che ho a disposizione per osservarmi osservando”.
Sul femminicidio e Giulia Cecchettin
L’uso del nero, dominante e simbolico, è allora un evidente espediente dispositivo cromatico che enfatizza il carattere misterioso delle opere. Le figure, avvolte in un eterno notturno – una sospensione di spazio e di tempo, appunto – richiamano l’immaginario dei collage surrealisti (ma calibrati) di Max Ernst.
In conclusione, Terzo Purgatorio si distingue per un rigore formale che non sacrifica la complessità iconografica originale, ma aggiunge una atipicità strutturale unica nel panorama contemporaneo. La mostra invita a considerare la pittura come un atto di costruzione e decostruzione, intellettuale quanto tecnica; un viaggio mentale di rimandi e intuizioni da tabularasa; un rompicapo gradevolissimo che non offre risposte definitive, ma apre porte e moltiplica le possibilità.
Federica Maria Giallombardo
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