A Palermo tre artisti esplorano il tema del giardino. Una mostra tra estetica e botanica
Da RizzutoGallery, a Palermo, il tema affascinante del giardino è affrontato in maniera originale. Tre progetti d’artista, con una serie di apparati visivi e teorici. Ad aprire la mostra un vincitore del celebre Turner Prize… Un esperimento di qualità, che stimola interessanti riflessioni.
Bisognerebbe tenere in conto tutta la magia che esercita, ogni giorno, chi si prende cura di un giardino. Nella pratica costante dell’osservazione e dell’ascolto, il giardiniere continua a immaginare la sua creatura, a modificane i contorni, a rimetterla in vita. Così, proteggendola, nutrendola, ne rigenera le trame. Lo ha insegnato Gilles Clement, padre di concetti chiave come quelli di ‘terzo paesaggio” e di “giardino planetario”, restituendoci l’immagine di un microcosmo tutt’altro che immobile: non un oggetto inerte, non un feticcio da custodire con osservanza di legge, ma un organismo che respira e muta, un’orchestra complessa in cui si accordano imperfezioni, verticalità, profondità e radici, imprevisti e imperfezioni, latenze e ribellioni, varchi, rizomi, baluginii, segreti, cavità. E tutto vi scorre dentro e in superficie, come per ogni identità che si intenda preservare e che però fa i conti con la propria porosità, con la fragilità e l’impermanenza, con la capacità di risonanza e la spinta del desiderio.
“Componendo un giardino – scrive Clement – il giardiniere crea un paesaggio; accompagnandolo nel tempo, ricorre alle tecniche di manutenzione orticole e ambientali. Egli riassume in sé la complessità di funzioni svolte separatamente dal paesaggista e dal tecnico, ma prima di tutto si occupa del vivente. (…) Forse non è necessario chiamare in causa il vivente per costruire un paesaggio, ma è impensabile farne a meno in un giardino (…) Il paesaggista regola la mutevole estetica del giardino (o del paesaggio), mentre il giardiniere interpreta ogni giorno le invenzioni della vita; è un mago“.
Una mostra sul concetto di giardino
È dunque frutto di una sapiente magia, un giardino. Proprio come un’opera d’arte, anch’essa aperta e viva. Anch’essa strumento di rappresentazione, reinvenzione e risimbolizzazione del reale, tale da non sovrapporsi mai all’esistente e da non lasciarsi mai afferrare appieno: infinitamente rinnovata nello sguardo degli altri, nella memoria di ciascuno, in ogni ulteriore occasione di visione.
Si pone al di là della più immediata iconografia di genere la mostra Garden, pensata dalla RizzutoGallery di Palermo e concepita come una tripersonale: Richard Deacon, Loris Cecchini e Daniele Franzella – tre generazioni, tre linguaggi e approcci diversi – non restituiscono raffigurazioni di orti, boschi, eden o parchi, ma del concetto di giardino sembrano cercare singolari ipotesi e declinazioni, facendone materia di investigazione intellettuale, estetica, percettiva. Il paesaggio come forma del luogo, per dirla con il geografo Franco Farinelli, se il luogo è sempre dinamico, interconnesso, soggettivo, irriducibile, opposto allo spazio e alla sua certezza prospettica, alla sua estensione omogenea, il cui primo presupposto è l’immobilità strategica dell’osservatore. Il giardino, a sua volta, come forma del paesaggio, sua scrittura plastica e potenza espressa.
Richard Deacon a Palermo per “Garden”
Ognuno dei tre artisti ha una sala tutta per sé. Il dialogo è a distanza, come a sfogliare le pagine di un libro, come a dischiudere tre scatole della memoria e del sortilegio, ciascuna con il proprio arsenale di segni, di alfabeti, di formule magiche e oggetti di scena.
Celebra la linea e i suoi illimitati destini Richard Deacon (Bangor, UK, 1949; vive a Londra), affidandola al tocco della mano e all’intenzione di chi scolpisce, scalfisce, disegna, incide. Disegnare sul foglio o nello spazio, poco cambia. La natura è innanzitutto un’idea, per il grande scultore britannico, artista internazionale, vincitore nel 1987 del Turner Prize, che apre la mostra con un’astrazione colma di delicatezza e rigore. Una grande scultura lignea è enigma curvilineo a pavimento, emblema di un cantiere che è umano e insieme cosmico, scientifico, filosofico, persino spirituale, se il tema è quello della genesi, del partorire forme, plasmare, forgiare, edificare, dando corpo al movimento nello spazio, a un’immagine che viene, a uno spostamento del pensiero.
Il giardino astratto mette a nudo l’ossatura del reale, mentre continua a riportare in circolo l’energia degli elementi e delle stagioni, che è materia di composizione e analisi per il giardiniere, lo scultore, il musicista, il matematico, lo scrittore; così si rivelano sistemi ed equilibri di una natura definita da regole certe, mentre il fondamento di ogni cosa trova una medesima ragione: tutto è punto, linea, superfice. Tutto è numero, cerchio, retta, segmento aperto o chiuso, obliquo e parallelo. Ma anche pulviscolo, membrana, corteccia, vibrazione di luce: una foresta di indizi, gradienti e geometrie, che nella bella serie di opere grafiche, realizzate per l’occasione, assume l’aspetto di eleganti costruzioni bidimensionali. Intrise di memorie novecentesche, queste piccole scritture lineari si connettono al grande oggetto plastico posto al centro della sala, ma anche a un paio di sculturine in resina, coaguli di colori dissolti e mescolati, il cui volume irregolare porta all’estremo il senso tattile già evidente nella trama del legno levigato e nell’inchiostro su carta cotone.
Il giardino di Franzella da Rizzuto
Non è luogo di quieta meditazione, di promenade a pieni polmoni o di bucoliche memorie d’Arcadia, il giardino immaginato da Daniele Franzella (Palermo, 1978). Non un “locus amoenus”, ma un Locus Solus à la Roussel, un parco dell’inquietudine e delle meraviglie che cita uno dei massimi capolavori della letteratura occidentale novecentesca. Il celebre romanzo era pregno di quell’esaltazione condivisa per una scienza in corsa e una tecnologia d’avanguardia, pronte a dischiudere i segreti della natura, per giungere prima o poi a riprogettare il mondo. Raymond Roussel spinse questa fede nel progresso fino ai limiti del fantastico e dell’onirico, trasfondendo in oggetti chimerici tutto il vitalismo di una realtà postumana ante litteram, riflessa in un linguaggio altrettanto audace: la lucida follia di uno spazio letterario cavo restituiva il vuoto di un tempo utopico, in cui coltivare un rutilante sentimento del futuro.
L’enorme affresco digitale di Franzella – il più grande mai realizzato dall’artista – è frutto di un collage fotografico che mixa brandelli di immagini trovate, modificate e ricollocate, così come Roussel mixava corpi, suoni, parole, relitti, macchine celibi, in una sintassi protosurrealista e visionaria. L’opera rivela e confonde: bassa definizione, figure sinistre impegnate in azioni illogiche, e un cielo piatto di linoleum rischiarato dal sole opaco di un pomeriggio inverosimile. La parete della galleria scompare, sostituita da questa finestra sull’assurdo: il giardino è animato da pochi personaggi misteriosi, tracce dei tableaux vivant e delle storie allucinate che Roussel affidava al mago-giardiniere, Cardarel, nel parco della sua dimora ai confini del mondo, tra freaks, fantasmi, teste mozzate, bizzarri congegni, creature antropomorfe, ipotesi di resurrezione, catastrofi di ricordi, incubi sempiterni e trappole del subconscio. Nel Locus Solus la vita sbocciava, aliena, sempre intrecciata con la morte, come si intrecciavano artificio e natura, secondo meccaniche di precisione continuamente sabotate. Franzella vi ritrova per caso brani della sua personale, galoppante scrittura poetica e narrativa, intitolata al doppio, all’ambiguo, alla metamorfosi, tra peso e leggerezza.
E proprio Cantarel rivive in una delle due sculture piazzate su eleganti basamenti geometrici. È lui, l’inventore-giardiniere, collezionista di orrori psicomeccanici, con la testa infilata in una scatola, come alcuni dei personaggi nell’affresco. Teste perdute tra nuvole e ossessioni, scatole come rifugi di matti, maghi, poeti, fanciulli, naufraghi e impostori. L’altra scultura raffigura un tennista, anonima figura borghese battezzata “Marigold” (nome inglese della Calendula Officinalis) per quel cespuglio arancione su cui inciampa e che sembra catturarne lo sguardo.
Rivolte verso il giardino, con le spalle ai visitatori, le lucide ceramiche seducono e invitano a capirne di più. L’istinto è di avanzare per studiare da vicino i due strani personaggi; girandovi attorno, però, l’immagine scompare a favore del non finito: l’altro lato è materia grezza, terracotta informe che inghiotte corpi e lineamenti. Una mostruosa rappresentazione dell’assenza. Il racconto è sospeso, accordato all’eco di uno strapiombo nel cuore del paesaggio.
“Garden” e le opere di Loris Cecchini a Palermo
Organismo molecolare, architettura metafisica o landa sconfinata, il giardino di Loris Cecchini (Milano, 1969) non somiglia a nessun tipico giardino botanico: proiettandosi in tutte le direzioni, tra solidità e irrequietezza, continua a sfuggire a ogni tentativo di contenimento. Anche in questo caso spazio e tempo si dilatano, mentre la realtà si fa sostanza mobile e mutante. L’universo vi risuona, con la sua precisione matematica, i suoi codici, le sue variabili incontrollate.
In questo giardino primigenio si moltiplicano oggetti, schermi, costellazioni, tavole periodiche, sinapsi, foglie, oceani, distese di sabbia, geometrie euclidee e non. La natura è osservata al microscopio, dissezionata, resuscitata in forme nuove, ricostruita tra lo spazio ed il piano in una giocoleria di riflessi, onde, pieghe, nodi.
L’acciaio inossidabile lucidato a specchio, materia d’elezione dell’artista, con le sue caratteristiche di algida resistenza e rifrangenza, è sostanza costruttiva di Airborne, corpo modulare che si ramifica, si espande potenzialmente all’infinito e si offre come modello di strutture microscopiche, fisiche o chimiche, cuore invisibile della materia e delle sue armonie. In Aeolian Landforms la fotografia di un deserto, rielaborata digitalmente fino a riprodurne la struttura per punti matematici, diventa disegno volumetrico, superficie in rilievo. Perfettamente corrispondente all’immagine di riferimento, questa grande modulazione giallo ocra ne è al contempo divergente, per la sua trasmutazione in apparizione astratta, informale: una duna vellutata su cui l’occhio scivola, come in un frammento di paesaggio mediterraneo, vuoto, assolato, mosso dal vento.
Apparati, contributi, visioni ulteriori per “Garden”
Una quarta sala è dedicata agli “apparati”, intelligente idea di allestimento in cui si relazionano ulteriori micro opere degli artisti, contributi video e materiali d’archivio della Fondazione Radice Pura e del collettivo Ground Action (Matteo D’Ambros, Sergio Sanna, Roberto Zancan), entrambi attivi nei campi dell’arte, del paesaggio e dell’architettura.
Infine, è esposta una fanzine con un ampio contribuito critico di Daniela Bigi sul tema dei giardini: sono innanzitutto quelli di Sicilia, che Bigi descrive ad esempio citando Edith de la Héronnière (“sotto i ficus giganteschi si stende un’ombra di morte con la quale i siciliani hanno lentamente composto, nota dopo nota, una sorta di ‘inno al silenzio’”); e poi quelli di Clement, con il bel riferimento a una mostra, Jardin des tempêtes, scovata in una nota de “Il terzo paesaggio” (“l’idea di un giardino che nasce come risposta vitale a un trauma naturale”). E ancora la figura di Libereso Guglielmi, “un anarchico altrimenti noto come ‘il giardiniere di Calvino’ in quanto da ragazzo aveva vissuto a Villa Meridiana, la casa di Sanremo in cui i genitori di Italo, illustri botanici, coltivavano le loro piante e i loro fiori”, trasformato dallo scrittore nel protagonista di uno dei suoi racconti; oppure la danzatrice Lawrence Halprin, che insieme al marito, architetto paesaggista, conquistò “un posto di primissimo piano nel dibattito statunitense su corpo-movimento-giardino-paesaggio”. Un lungo approfondimento teorico, che completa e arricchisce il progetto nella sua natura espositiva e speculativa.
In conclusione, è ancora la splendida lettura di Farinelli a illuminare il ragionamento. Se ciascun luogo è unico ed esiste per se stesso; se tutti i luoghi si interconnettono nella complessità di una terra che oggi si riscopre sferica, non ridotta alla misura spaziale, alla leggibilità cartografica e alla visione prospettica; se “luogo”, aggiungiamo, significa passo, cambiamento, percezione, via di fuga, alterazione, memoria personale ed esplorazione in soggettiva, embodyment, tempo interiore… è anche dentro ad ogni luogo-giardino che si compie il miracolo di fioriture irregolari, di visioni inattese. Una risorsa, in questo tempo ipertecnologico che polverizza flussi abnormi di immagini e distrugge ogni riferimento, ogni orientamento. Il paesaggio come inesauribile dispositivo di comprensione del mondo, il giardino come immaginifica chance di sopravvivenza.
Helga Marsala
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