La Vucciria di Guttuso compie 50 anni: un’icona popolare e la sua storia

La Vucciria, conservata nel palermitano Palazzo Steri, è un quadro amatissimo, ma anche discusso. Ne ricordiamo l’origine e proviamo a rileggerlo, insieme alle parole dell’artista e ad alcune celebri pagine di critica

Sono compressi al centro della scena, lungo uno stretto varco a serpentina, i personaggi de La Vucciria di Renato Guttuso. Su di loro, a destra e a sinistra, incombono masse di cibi variopinti, quasi a crollargli addosso, a impedirne il passo. Lo stretto palcoscenico aperto tra le quinte di frutta, verdura, ceste di uova, carne bovina e pesce fresco, prosegue oltre i bordi inferiore e superiore del quadro, dilatando quell’angolo di suq palermitano e propagando l’impasto di voci, i passi, il brusio, le frequenze e le liturgie degli “abbanniatori”, con la loro merce urlata, esposta, recitata, accatastata.

Renato Guttuso, La Vucciria, 1974, olio su tela, cm 300 x 300. Palermo, Palazzo Steri
Renato Guttuso, La Vucciria, 1974, olio su tela, cm 300 x 300. Palermo, Palazzo Steri

Alcune figure sono incastrate lateralmente: il pescivendolo, il formaggiaio, il macellaio, il fruttivendolo in fondo; oggetti tra gli oggetti, osservatori muti precipitati in un silenzio innaturale. Gli altri camminano, quasi straniati. Un unico sciame di presenze vive e roventi, come la pittura, messe a morte e tramutate in fantasmi, come in una fotografia. L’autore la definì “una sintesi di elementi oggettivi, definibili, di cose e persone: una grande natura morta con in mezzo un cunicolo entro cui la gente scorre e si incontra”. Lo spirito della città, quella dei mercati storici oggi radicalmente trasformati, in via di sparizione, restò incollato al quadro, trasfuso in un’immagine-icona che è doppio malinconico di un’identità perduta.

Come nacque La Vucciria di Guttuso

Guttuso dipinse la sua Vucciria cinquant’anni fa, nella villa di Velate, a Varese, dove ogni anno anno villeggiava con la moglie, Mimise Dotti. L’intenso distillato della vecchia Palermo, rubato a un’estate torrida grazie a un lungo reportage di appunti fotografici, rinasceva in pittura sotto un cielo autunnale del Nord. Lunga fu la preparazione, poi ci volle un solo mese per realizzare l’opera: “Ho eseguito il primo disegno d’insieme il 20 luglio e ho continuato a disegnare e dipingere opere di contorno: studi se si vuole, nati più per trasformare un fervore immaginativo in azione, e partire dall’azione per affrontare il quadro, che è stato dipinto dal 1 ottobre al 6 novembre 1974. Disponevo di un gran numero di fotografie, fatte da me e dall’amico Ninni Mineo. Me ne sono servito, ma come per «ripassare» un testo, che però si andava strutturando in senso opposto ai suggerimenti che ricevevo dalle foto”.

Via da Palermo, immerso nel ricordo, alle prese con la difficile rielaborazione del reale, Guttuso cercò una forma di distanza geografica e mentale, necessaria all’esercizio dello sguardo: prendere le misure, elaborare, interpretare, guardare in piena consapevolezza da lontano, dopo essersi addentrato nel caos e averne attinto a piene mani. Lo studio si tramutò in un set. Ogni giorno arrivavano cibarie direttamente dalle bancarelle della Vucciria, in aereo, grazie alla collaborazione di amici ed assistenti. L’artista ricreò così un frammento di Palermo, studiando dal vero forme e colori, riattivando la vista e l’olfatto, stimolando la memoria. Solo il manzo che giganteggia in primo piano sulla tela, e alcune tipologie di pesce, furono recuperati nei dintorni. Ricorda in un testo lo scrittore Domenico Porzio: “Il pesce spada è arrivato dalla Sicilia. Il macellaio di Velate gli ha prestato più volte il mezzo bue squartato che appeso a un gancio lui freneticamente illuminava, ricopiava, colorava. I suoi due aiutanti-segretari, i fidatissimi Rocco e Marcobi, hanno avuto un gran daffare a comprare polipi e gamberi, cernie e spadole dai pescivendoli della zona”. Infine, senza alcuno spreco, tutto veniva cucinato e condiviso con gli amici, tra generose tavolate.

Presentata nel dicembre del ’74 alla Galleria La Tavolozza di Palermo, poi tra febbraio e marzo alla Galleria Toninelli di Roma, la grande tela venne donata lo stesso anno all’Università di Palermo, grazie a un’intuizione dell’allora prorettore Marcello Carapezza, amico intimo dell’artista. Trovò così posto a Palazzo Steri, sede istituzionale dell’università stessa, dove ancora oggi è esposta nella Sala delle Armi, valorizzata nel 2021 da un nuovo allestimento. Mezzo secolo di vita, festeggiato a dicembre 2024 con una serie di attività divulgative promosse da UniPa in collaborazione con Coopculture, tra visite speciali, talk, laboratori didattici.

Renato Guttuso, La Vucciria, 1974. Allestimento permanente, ex Sala delle Armi di Palazzo Steri, Palermo
Renato Guttuso, La Vucciria, 1974. Allestimento permanente, ex Sala delle Armi di Palazzo Steri, Palermo

La Vucciria: folclore o grande pittura?

È invecchiata bene, La Vucciria. Con questa allure che è la stessa dei miti popolari. Eppure già allora non incontrò il favore di chi guardava ai linguaggi più sperimentali del contemporaneo, cacciando nell’angolo l’obsoleta pittura figurativa; un quadro che ancora divide, interroga, che non si lascia del tutto afferrare. Sopravvalutato secondo alcuni, per quella cifra folcloristica e ingenuamente descrittiva; un capolavoro del ‘900, per altri, a partire da molte autorevoli voci della critica e della letteratura italiana.

I contorni spessi e neri, i colori accesi di una tavolozza pop, i volumi appiattiti in un teatrino di carta senza peso, rinunciano alla densità del vero, alla sua carnalità, alla sua potenza fisica, viscerale. Il racconto è sì fedele al reale, scansando qualunque deformazione simbolica e alterazione formale, ma lo proietta tutto in superficie, lo riduce a un’accumulazione opaca di cose, a un’orchestrazione di tinte sature e di sagome. In un disordine paradossalmente disciplinato, geometrico, organizzato per linee, contrappunti, piccole masse di colore.
Il neorealismo di Guttuso nel tempo ha continuato a cucinare in diversa misura il vigore espressionista, la lezione compositiva del cubismo, l’attitudine all’osservazione sociale. Ne La Vucciria sopravvive un po’ di tutto questo. È un affresco popolare, una giostra multisensoriale, ma con la durezza di uno schema conoscitivo, di un’architettura lucidamente disegnata e apparecchiata su tela, come si apparecchia sul tavolo una natura morta per farne oggetto pittorico, paradigma spaziale. Poi le storie, i racconti, i significati si aggrappano alla pelle delle immagini, vi germogliano dentro, si plasmano e riplasmano sulle forme e nel loro movimento.

Da Piero della Francesca a Cézanne, passando per Picasso, Guttuso ha indagato senza tregua il senso dello spazio – la luce come struttura, il colore come nucleo costruttivo – scandagliando al contempo la dimensione dell’umano, da una prospettiva storico-sociale e da una esistenziale. Nessuna contrapposizione tra questa tensione razionale e l’espressività concreta, realistica delle figure: “… la contrapposizione razionalità-espressione appare oggi come una vecchia disputa priva di senso perché la grande arte espressiva è sempre razionale”, scriveva nel 1976 in un saggio su Piero della Francesca, artista solitario, “saldamente piantato nel pieno del secolo come una roccia solitaria, nella quale si racchiudono la luce, l’aria, la dolcezza e la fermezza, la geometria e la poesia, il calore umano e la presenza della ragione”.

E a proposito di Piero, è una sua celebre opera che citava, ragionando sul contrasto tra formalismo puro e narrazione, in un passaggio del celebre testo Paura della Pittura (dall’omonimo numero di “Prospettive”, periodico di Curzio Malaparte): “Il ‘Sogno di Costantino’ è una macchina di forme soltanto? O è anzitutto il sogno di Costantino espresso da una macchina di forme? Vecchia questione ma sempre falsata nei suoi termini, e sempre, credo, lo sarà. (…) Non dunque partigiani delle forme e partigiani di un dettagliato raccontare. Il conflitto non è nei caffè o sui giornali, un conflitto di partiti, ma un conflitto dentro il quadro, sempre composto nell’espressione, se c’è. Una crocifissione che sembri una natura morta e una natura morta che sembri una crocifissione: ciò è capitato a ogni vera pittura dai bizantini a Caravaggio, a Picasso”.

Renato Guttuso nel caos della Vucciria, a Palermo. Da una serie di foto scattate da Aermando Calaciura per 'La Gazzetta della Fotografia'
Renato Guttuso nel caos della Vucciria, a Palermo. Da una serie di foto scattate da Aermando Calaciura per ‘La Gazzetta della Fotografia’

Sciascia e il mercato di Guttuso, tra sogno, teatro e storia

Non sarà allora uno dei suoi dipinti più feroci e coraggiosi, La Vucciria, ma certo è che oltre quella patina descrittiva, oltre quel realismo spinto verso l’illustrazione e calato nel più pittoresco dei contesti, qualcosa d’altro circola e si insinua, fino a trapassare la superficie del dipinto e a interrogare chi non s’accontenta dell’elenco delle merci, della vivace rappresentazione locale, dell’apparente immagine da cartolina. Che cosa sia quel qualcosa è un tema aperto: La Vucciria è un dipinto misterioso, al netto della sua semplicità. Talmente semplice da ribaltarsi in un piccolo enigma siciliano, con tutte le contraddizioni e le complessità che dell’isola sono tessuto immateriale, e che Guttuso, uomo coltissimo, ben conosceva e custodiva tra la pittura e la scrittura.

E mentre Maurizio Calvesi, dopo la presentazione dell’opera a Roma, sul “Corriere della sera” (12 gennaio 1975) si schiera con la figurazione guttusiana, in opposizione alle nuove tendenze d’oltreoceano (“Quella che chiamiamo la ‘anacronistica’ attualità di Guttuso si coglie a contrasto di certo freddo delle più recenti sperimentazioni in arte… e soprattutto a confronto del mortuario ‘iperrealismo’d’importazione americana“), l’amico Leonardo Sciascia pubblica un commento sul “Corriere Ticino” (11 gennaio 1975), poi inserito sul n. 76 della storica rivista “Sicilia” di Flaccovio. L’articolo si sofferma sulla dimensione del visivo, che domina la realtà sfavillante dei mercati rionali, così come la versione che ne diede l’artista. Un tripudio sensoriale, talmente accentuato da farsi ultrareale e sfiorare l’onirico: “A Bagdad, a Valencia, a Palermo un mercato è qualcosa di più di un mercato, cioè di un luogo dove si vendono vivande e dove si va per comprarne. È una visione, un sogno, un miraggio. Un ‘mangiar visuale’ (…) ‘un misto di gola, di ristoro, di meraviglia, di dolcezza, di liquefazione’, come appunto nelle bevute visuali del Magalotti”.
Ma dal significante non si stacca il significato, che è storia lontana, radici, essenza di popolo racchiusa nella primigenia vocazione al teatro: è l’idea a cui accennavamo all’inizio, il mercato come palco, gli attori in scena, i venditori con il loro rito di declamazione e di seduzione. Quanto siamo in grado di afferrare il genius loci, oltre il rischio della banalizzazione? “Ora, il visualizzare un fatto visuale quale la Vucciria di Palermo (…) – il visualizzarlo in una pittura, in un quadro, in un grande quadro – sarebbe un’operazione piuttosto ovvia e banale, se non vi concorresse (…) la conoscenza e coscienza di un significato: di quel che una tale visualità – che sarebbe da dire propriamente e definitivamente teatralità – umanamente e storicamente significa. E potremmo anche fare a meno di dire che non significa il consumo, ma la fame: poiché il quadro di Renato Guttuso impareggiabilmente lo dice”.

Renato Guttuso, 1960
Renato Guttuso, 1960

Uomini e cose. La Vucciria secondo Goffredo Parise

Nel suo testo di presentazione della mostra alla Galleria Toninelli Goffredo Parise aveva scelto di muoversi su un piano di realtà, fino alle estreme conseguenze: né sogno, né sensi amplificati, né impegno politico e critica sociale, ma solamente vedere, vedere, vedere.  Nel dipinto di Guttuso tutto accade e si consuma in superficie, il soggetto scivola dal reale al pittorico, offrendosi all’occhio. Né simbologie, né divagazioni, né impalcature, ideologie, dietrologie. Tutto attiene al regime del visibile.

Parise mette in scena un dialogo immaginario tra l’io narrante e l’opera: così, interrogando l’immagine, la lascia parlare, la anima, la tramuta in oracolo a cui strappare qualche scampolo di verità:
Che cosa sei?” / “Sono l’Italia così com’è” / “Cosa significa quel com’è?” / “Significa esattamente questo: guardami e capirai” / “Ti ho guardato” / “Allora dimmi che cosa hai visto” / “Ho visto cassette di aranci maturi, banane, limoni; e cedri, pere, mele e fave. Ho visto peperoni rossi e verdi, salsicce, salumi e formaggi…” […] Ho visto del pesce, molto pesce freschissimo: trance di pesce spada, teste di pesce spada con la spada ritta e prezzemolo in bocca, uno scorfano molto grosso e rosso, dei tonnetti striati, orate lucenti, spigole, merluzzi, polipi, calamari, mazzancolle”.
Un testo-elenco, così come funziona per elenchi e accumuli il quadro. Dunque tutto qui? Cose, cose, unicamente cose che saturano lo sguardo. E l’impegno politico? E il senso profondo?:
Ho notato, nello splendore abbacinante di tanta luce italiana e mediterranea (…) l’assenza del socialismo; intendo dei simboli del socialismo (…) / “Non uscire dal quadro e da quello che hai visto; se non hai visto quei simboli vuol dire che il socialismo non c’è. (…)” / “Ma dovrò pure rifarmi a un minimo di convenzione esplicativa, critica, ideologica, nominalistica, estetica, dovrò pure cercare di definire e incasellare dentro un qualche schema possibile quello che ho visto…” / “No, non c’è nulla da definire, né alcuna convenzione esplicativa dentro al quadro. Ci sono le cose che ci sono e che hai visto, e basta”.

E però le cose che si vedono sono già, esse stesse, una summa silenziosa di storie, identità, culture, esistenze qualunque e biografie straordinarie, a comporre ed orchestrare la partitura del mondo, la grande architettura del reale:
Allora significa che la cultura e il pensiero del nostro paese sono gli aranci che ho visto, i limoni, il pesce spada, le mozzarelle, il coniglio e gli uomini e le donne?” / “Esattamente” / “Ma questo non è un pensiero: questi sono semplicemente uomini e cose” / “In una parola l’Italia come è”. / “Ora ho capito l’Italia come è. Forse per questo il quadro mi è sembrato il capolavoro di Guttuso (…) Sono ammirato e perplesso” / “Perché?” / “Perché quello che dici è troppo semplice. Eppure sento che non lo è” / “Infatti non lo è. In esso sta tutto il pensiero, la cultura e la storia politica italiana. Dentro questa apparente semplicità (…) ci sono molti secoli di storia d’Italia, fatta sempre allo stesso modo apparentemente semplice”.

©Melo Minnella, Renato Guttuso davanti al Trionfo della Morte, Palazzo Abatellis, Palermo, 1985
©Melo Minnella, Renato Guttuso davanti al Trionfo della Morte, Palazzo Abatellis, Palermo, 1985

La Vucciria come un “quadro nero”

Che si trattasse di un’opera importante era convinto anche Cesare Brandi, partendo da una premessa: “La sicilianità di Guttuso non è folclore.” Era, semmai, il senso di un legame affettivo, profondo, una linfa che “monta da terra e per le vene risale il corpo, lo irrora come un altro sangue“. Così scriveva in un importante saggio del 1983. 
E quella linfa dunque scorre identica tra le vie del mercato, tra i volti impietriti dei passanti, tra gli occhi vuoti dei venditori, poi tra i cibi allestiti e imbevuti di sole: dalla grazia gentile di un bouquet di frutta, alla cruda verità di un bue scuoiato, appeso, crocifisso come in Francis Bacon, ma così lontano dall’urlo disperato dell’informe e dal suo simbolico contenimento dentro spazi matematici, irreali. Una linfa che è vita esasperata, ma anche morte che serpeggia. Brandi lo capì ed ebbe un’intuizione geniale. Quella summa di colori, anziché risolversi in un bagliore bianco, dischiudeva un nero sotterraneo: sotto lo strato di pigmento, al di là della mimesi e delle convenzioni, un seme tragico generava le figure. La pittura di Guttuso sorgeva dal buio.
Celebre questo passaggio: “Difficilmente l’evocazione di frutta, verdure, carni, pesci, uova, può avere dato luogo a una partecipazione corale cosi ardente: il quadro brucia, il quadro, con tanti timbri quasi violenti che si cozzano, in realtà vive entro contorni di pece, listato a lutto. ‘Così rutilante di colori ‘ebbi a scrivere ‘ma come su un fondo nero, come dipinto su una lastra di lavagna, non è meno tragico di Gibellina’. E proprio questo è il fatto per cui il quadro non lascia, non può lasciare indifferenti: c’è, scritta fra i righi, tutta la sorte, né vi è sorte più tragica, della Sicilia”.

Come “tanti timbri diversi in un’orchestra” i molti elementi funzionavano insieme, nell’armonia che ha origine da quella stessa ombra. E la durezza dei tratti, i bordi spessi, la fissità e la tristezza dei volti, la carcassa insanguinata in primo piano, l’assenza di aria e l’eccesso di colore (tale da soffocare), di quest’ombra restano in effetti segno evidente: “il quadro è tenuto insieme, come una musica dalla tonalità, da quel nero di fondo e visibile, solo nei contorni”. Un nero in cui risiede l’essenza dell’isola:La Sicilia, per Guttuso è dramma e amore”.
Quel piano luttuoso aveva allora una doppia natura: era tragedia, malinconia tutta siciliana, senso della fine, vanitas, morte che pervade ogni scintillio di vita, ma anche incombente disarticolazione dell’immagine, sulla scorta della lezione cubista, per un linguaggio “sempre trattenuto sull’orlo fatale dell’astrazione come dell’integrale realismo socialista”.

Renato Guttuso, Fuga dall'Etna, 1939 - collezioni Galleria nazionale d'Arte moderna
Renato Guttuso, Fuga dall’Etna, 1939 – collezioni Galleria nazionale d’Arte moderna

La morte e l’invisibile in Guttuso

E in fondo anche questo dipinto, pur lontano dall’attitudine di certi capolavori degli anni ’40/’50, si può ricondurre all’influsso esercitato su Guttuso dal Trionfo della Morte di Palermo, vera ossessione e profonda ispirazione, il cui impianto compositivo e la cui vena tragica sono fortemente leggibili in opere come la Crocifissione, Fuga dall’Etna, La Spiaggia, Occupazione delle terre incolte… Anche qui giunge l’eco, meno evidente ma ormai interiorizzata, di quel mortifero teatro quattrocentesco: l’unità compositiva, le figure compresse e immobili in uno spazio esiguo, l’assenza di orizzonte, l’equilibrio instabile dei cumuli di mercanzie, sul punto di franare verso la sottile linea centrale a zig zag, e questo dinamismo pietrificato, potenziale.

Lo stesso Parise aveva ritrovato nel quadro dello Steri il senso di Guttuso per la morte. Così diceva dei protagonisti, muti come cose pronte a sparire: “Erano vivi, ma ho avuto la sensazione, in mezzo a tanta natura morta, a tanta luce e a tanto sangue, che il loro destino come il destino di quel bue appeso o di quel coniglio o di quei peci spada e di tutte le verdure, così belle e colorate e fresche ed estive, è di corrompersi e morire”.

Trionfo della Morte - Galleria regionale di Palazzo Abatellis, Palermo, affresco staccato
Trionfo della Morte – Galleria regionale di Palazzo Abatellis, Palermo, affresco staccato

Nell’originale lettura di Brandi Guttuso si ritrovò. Lo sguardo del critico si era fatto specchio: ”… a un certo punto – dichiarò in un’intervista su “Epoca”, nell’83 – mentre dipingevo, mi sono accorto come tutta quella abbondanza di vita contenesse, nel fondo, un senso distruttivo. Senza che io ci pensassi o volessi, la tela esalava un sentimento di morte“.
Una lettura che ebbe fortuna e che volle spingersi oltre quel regime del visibile e del sensibile: Guttuso fu anche un pittore dell’invisibilità, contro ogni facile interpretazione. ‘Invisibile’ espresso nel sentimento di morte, nell’utopia di rivoluzione, nel bisogno di capire e di vedere in fondo, come solo l’artista e il poeta sanno fare. Cifra siciliana, greca, mediterranea, ancestrale, ma anche europea e contemporanea: “Tutto il travaglio di questo dopoguerra, nell’arte – scrisse l’artista nel ’57 –verte intorno alla ricerca di una visione essenziale che racchiuda quanto più possibile del reale, cercandolo fin dove esso è oscuro e invisibile, fino al caos, fino al “nucleo”. Fino a fare di una natura morta un frammento d’universo, di un mercato rionale un teatro senza tempo, di un singolo fatto storico il riflesso della condizione umana.

Helga Marsala

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, editorialista culturale e curatrice. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo,…

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