A Milano la bella mostra alla Fondazione ICA con Maurizio Cattelan tra i curatori
Due artiste coeve, dalla poetica quasi sovrapponibile, che però non si sono mai conosciute in vita. Con questa mostra da Fondazione ICA, i due curatori realizzano l’incontro mancato tra Birgit Jürgenssen e Cinzia Ruggeri, con un percorso espositivo disseminato di rimandi
Una mostra costruita come se fosse una partita di tennis, con continui rimbalzi da una parte all’altra della rete. Di qua, c’è Birgit Jürgenssen (Vienna, 1949 – 2003), mentre di là Cinzia Ruggeri (Milano, 1942 – 2019). A roteare sotto i colpi delle “racchette” delle due artiste – coeve, lontane per geografia, eppure compagne di lavoro ideali – sono le loro opere. Opere che sorpassano i confini tra discipline, anzi: gettano ponti di collegamento, come suggerisce il titolo dell’esposizione (Lonely are all bridges). Arte, design, moda e fotografia sono i mezzi utilizzati per raccontare la loro visione del mondo, soprattutto femminile. Mai nei fatti biografici messa in comune, eppure assimilabile in modo straordinario. È questa l’idea geniale pensata per la Fondazione ICA di Milano dai due curatori d’eccezione, Marta Papini e Maurizio Cattelan.
Il progetto espositivo di Maurizio Cattelan e Marta Papini per Fondazione ICA
Tutto ha inizio nel 2021, quando Cattelan e Papini sono chiamati a Vienna, per sviluppare una mostra dedicata a Birgit Jürgenssen. Approfondendo il lavoro dell’artista, i due – che già conoscevano l’opera e la posizione di Cinzia Ruggeri – rimangono affascinati dalle somiglianze. Incredibili. Pare assurdo che non si siano mai incontrate in vita. A quasi quattro anni di distanza, dopo nuovi studi e ricerche, portano a Milano, alla Fondazione ICA, una mostra che aggiunge un capitolo di storia alle biografie delle due artiste. Inscena l’unione e il sodalizio che il destino non ha voluto realizzare prima.
Chi è Birgit Jürgenssen
Qualche parola è utile spenderla per tratteggiare i profili delle due protagoniste, chiarendo ancor di più il loro accostamento. Birgit Jürgenssen attinge la sua poetica dal Surrealismo e lo rielabora per riflettere sulla condizione della donna in casa e nella società in generale. Utilizza il corpo, il suo, per sperimentare nuove forme espressive, che attingono dalle tecniche fotografiche, dalla moda e dalla pittura. Beninteso: non si tratta, di un corpo ostentato o esibito… al contrario. È nascosto, suggerito con maschere, inserti e altri materiali. Questo si unisce a un altro interesse – un’ossessione – per gli oggetti quotidiani della casa e del guardaroba; tutti riletti in modo ironico e sovversivo. Ultima, ma non meno importante, l’ibridazione tra uomo, cosa e animale. Cappelli che diventano topolini, scarpe da cui fioriscono le parti del corpo più improbabili: il banale si trasforma in curioso e surreale.
Chi è Cinzia Ruggeri
Milanese, fuori dagli schemi, artista nota forse più per il suo lato di designer e progettista. Firma creazioni straordinarie, che vanno dagli abiti, agli accessori, agli arredi, fino a distopiche installazioni ambientali. Con grande libertà ridisegna il modo di vestire e di abitare della donna della sua epoca, forte di una visione anticonformista e sottilmente ironica. Come già era vero per Jürgenssen, così anche per lei gli oggetti quotidiani sono fonte di interesse e gli accessori un’ossessione con cui arricchire di significato il corpo. Tutta la sua produzione è permeata da una costante volontà di ridefinire le funzioni delle cose di tutti i giorni, creando un immaginario fantastico dalle forti tangenze – altro elemento comune – con Dadaismo e Surrealismo. Questo suo stile piace e cattura il pubblico del suo tempo, portandola a collaborare con Domus, Vogue e persino a disegnare i costumi e le copertine degli album del gruppo dei Matia Bazar.
La mostra di Birgit Jürgenssen e Cinzia Ruggeri alla Fondazione ICA di Milano
Al centro dell’esposizione, declinato nelle creazioni delle due artiste, c’è l’interesse sulla figura femminile e sul suo ruolo domestico e sociale negli Anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Il titolo – Lonely are all bridges – è una citazione colta di Ingeborg Bachman (Nobel per la Letteratura nel 1963), studiosa della condizione della donna nel Secondo Dopoguerra. Come già accennato, però, interpretandolo alla lettera si intuisce il continuo gioco di costruzione di “ponti” tra mondi, oggetti e corpi improbabili, che diventano possibili. Il percorso espositivo definito dai curatori è un continuum di rimandi visivi e concettuali tra i lavori di Ruggeri e Jürgenssen.
L’accessorio secondo Ruggeri e Jürgenssen
Si è accolti al piano superiore della Fondazione da due opere che stabiliscono subito le chiavi di lettura dell’intera mostra. Surrealismo pregno di ironia e critica sociale. Di Jürgenssen è l’autoritratto dal copricapo di pelo che diviene un topolino; Ruggeri firma Chef + Remy (una citazione al cartone animato Ratatouille?) composto da un cappello da cuoco, guanti bianchi e una piuma di fagiano.
Si procede poi nella prima delle quattro stanzine, che funge da guardaroba di accessori improbabili. Un paio di scarpette col tacco, raffigurate in un quadro dalla cui cornice pende una calza nera; le scarpe-scale che si arrampicano sul muro come per poter scappare; o, ancora, lo scarponcino dalla linguetta che si trasforma in una lingua vera. Più di tutto, però, colpisce l’eloquenza di Housewives’ work, che si eleva a lavoro portante dell’esposizione. Si tratta di un disegno dai toni delicati – ma dal significato tagliente – in cui si vede donna china sull’asse da stiro. Non rassetta i soliti panni, bensì sagome di uomini in carne e ossa.
Il tema del doppio
Nel prosieguo della mostra, si incontra la trattazione del “doppio” da parte delle due artiste. Curiosissimo il duplice ritratto di Birgit Jürgenssen, che si raffigura seduta su una sedia in braccio a se stessa. Un ulteriore livello di riflessione è l’opera in cui si immedesima in una partita di tennis giocata contro di sé, con il volto trasformato in racchetta che risponde ai colpi della mano. La metafora detta prima assume ancora più senso. Di Ruggeri c’è invece il paio di Stivali-Italia… ovviamente verdi e con la forma che ricorda la nostra penisola.
L’abito come manifestazione del corpo femminile secondo Ruggeri e Jürgenssen
E si arriva al culmine del percorso, nella sala grande della Fondazione. La parete centrale per l’occasione si colora con un wallpaper tratto da un’illustrazione dell’artista austriaca. C’è una donna, nuda, che scende una scalinata. La sua chioma – lunghissima – si trasforma nelle lunghezze in un serpente senza fine. Il gioco è incentrato sul tema della scala: questa è ripresa nell’abito verde di Ruggeri, chiamato proprio Vestito-scala, con un motivo geometrico ironico e giocoso. In ultimo, impossibile da non citare l’infinita serie di scarpette colorate, tutte diverse l’una dall’altra, espressione del design assurdo e irriverente dell’italiana. Ce n’è di ogni forma e modello, dagli stivali ai sandali, con i fiori e con insetti applicati in punta. A far riflettere non è però il loro aspetto, quanto piuttosto il fatto che ciascun paio sia rivolto verso il muro. Come se le rispettive proprietarie fossero in castigo, in attesa di essere punite… forse per essersi prese qualche libertà di troppo.
Emma Sedini
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