La poesia per immagini di Graziano Salerno in mostra a Cagliari
Un corpus di 200 opere datate alla seconda metà degli Anni Ottanta traccia il percorso creativo del periodo più prolifico del poliedrico artista sardo. Un unicum nel panorama artistico sardo
Le opere di Graziano Salerno sono racconti per immagini, narrazione poetica e onirica dalla forte carica visionaria ed evocatrice. Senza poesia in nessun caso è una grande mostra, visitabile fino al 31 marzo, dedicata all’artista outsider, curata da Cristiana Collu, nell’ambito di AR/S Arte Condivisa; piattaforma della Fondazione di Sardegna che promuove il patrimonio artistico sardo. Esposizione accompagnata da un catalogo Treccani a firma della curatrice e i contributi di Saretto Cincinelli, Alessandro Del Puppo, Antonello Tolve, Jonathan Watkins, Annarosa Buttarelli, Ilaria Bussoni e Giacomo Spissu.
La vita di Graziano Salerno
Sono poche le notizie sulla vita di Graziano Salerno: nasce a Nuoro, il 9 novembre del 1954. Fino al 1957 vive ad Orgosolo, dove conosce Francesco del Casino, in occasione della rivolta di Pratobello, nel 1969. Inizia il suo percorso guidato da don Martino Pinese all’Istituto Statale d’Arte di Nuoro, per poi trasferirsi a Roma dove frequenta la Facoltà di Architettura e, successivamente a Bologna, dove si laurea all’Accademia di Belle Arti con Concetto Pozzati e una tesi su Giorgio de Chirico. Inizia poi a viaggiare tra Londra, Berlino e Parigi dove vive dal 2007 al 2010. “G. l’antieroe per eccellenza che continua ad amare l’avventura e la libertà, a rischiare e a vivere con intensità, senza rimpianti ma non senza tormenti. Uno spirito libero che rifiuta le convenzioni sociali e si nutre di incontri casuali e di solitudine, esposto alle intemperie della vita nella sua dimensione panica, naturale e primordiale”, scrive Cristiana Collu.
Graziano Salerno e la sua personale poetica
Salerno elabora una personale versione del Museo in Valigia di Duchamp, operazione che equivale alla negazione della pittura; una rinuncia all’arte tradizionale a favore di un’opera in continua evoluzione. Un work in progress che esplora le potenzialità del personale universo introspettivo. “L’ho chiamato Museo-e per ribadire, con quella congiunzione alla quale non segue nessuna parola, che non è solo un museo, ma un’opera aperta nel senso più vero del termine, suscettibile di variazioni e di contributi”.
Rigorosamente monocroma, tono su tono con qualche eccezione, quella di Salerno è una pittura veloce, gestuale, occulta, parzialmente intraducibile. In precario equilibrio tra aniconismo e figurazione. Dal tratto ossessivo, reiterato, insistito, per dare vita a simboli fallici, a forme romboidali che sormontano tronchi d’albero spezzati e colonne. Dirigibili, eliche e imbuti. Visi che diventano case, case che diventano volti. Ibridi muniti di più membri, creature orrifiche, bestiali e inquietanti. Presenze antropomorfe sospese. Esseri galleggianti in uno spazio indefinito. Macchie che evolvono in figure trasfigurate, restituite attraverso una sorta di scrittura automatica tipica del surrealismo che collega realtà controverse. Sì, perché il linguaggio di Salerno, fatto di pittura, disegno, fotografia, poesia e racconto, è un automatismo affrancato dalla ragione e dalle convenzioni. É pittura infantile, Art Brut, Primitivismo che attinge a piene mani a Klee, Mirò e Salvatore Fancello.
La mostra alla Fondazione di Sardegna
“Potete vivere tre giorni senza pane, ma senza poesia in nessun caso; e quelli di voi che affermano il contrario s’ingannano”. É ricavato da un aforisma di Baudelaire pubblicato sul breve saggio Il Salone del 1846, il titolo della mostra in corso alla Fondazione di Sardegna, che, grazie al prestito di un collezionista privato, con una selezione di 200 opere, offre un focus sulla produzione realizzata nella seconda metà degli anni Ottanta. Un percorso che si snoda tra acquerelli, disegni e comprende una serie di opere tratte dal libro Storia del cortile infinito o fiaba della bambina e di Gesù, introdotto da un testo dello stesso Salerno che recita: “É una storia visiva. Le immagini mi apparvero nell’aria densa calda e umida di un cortile o nel lago vicino a una foresta, ogni cosa prendeva vita dal danzare del pennello nell’aria. L’albero spezzato, il nido, gli uccelli erano per me allora il fulcro del dramma, quello universale vissuto dalla nostra condizione umana”.
Quasi mai datate, le sue opere sono prive di titoli, talvolta accompagnate da didascalie che disorientano creando un cortocircuito. A chiudere l’articolato e ben strutturato percorso espositivo, una selezione di tredici di Archetipi in nero di china, alfabeto zen che esplora i meandri più profondi dell’inconscio, e tre opere pittoriche di proprietà della Fondazione di Sardegna, tratte dalla serie Fanciulli (1991). Filiformi e delicate silhouette che tanto l’accostano ai ribelli Fauves, quanto lo distinguono dalla precedente produzione, poiché “Libero è il cuore del poeta, egli non ha desideri”.
Roberta Vanali
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