Una mostra per scardinare la storia dell’arte. Intervista a Jean-Jacques Lebel
L’artista e collezionista anarchico anticapitalista Jean-Jacques Lebel ci racconta la mostra che il Centre Pompidou di Parigi ha realizzato con i pezzi della sua collezione, incrociando l’arte del Novecento con manufatti da tutto il mondo e da tutte le epoche
Antonin Artaud, Leonora Carrington, Marcel Duchamp, André Breton, Victor Hugo, Francis Picabia, Esther Ferrer, Kazuo Shiraga, Kurt Schwitters, Kader Attia sono solo alcuni degli artisti che, attraversando tutto il XX Secolo fino ad oggi, si animano insieme a oggetti rituali, come maschere o statuette voodoo, “creando uno spazio di libera circolazione di energie”, un invito a decostruire il modo di pensare e studiare la storia dell’arte. La mostra Chaosmose nasce dalla stretta amicizia e lunga collaborazione tra il presidente di Beaubourg, Laurent Le Bon, e Jean-Jacques Lebel. Essa si rivela, inoltre, una dedica a coloro che sono stati, e sono tutt’ora, poeti, pittori, scultori, virtuosi dell’assemblaggio e del collage, fautori di ogni forma di arte-azione e agitatori culturali, molti dei quali amici di Lebel.
La mostra Chaosmose a Parigi
Il principio su cui si basa Chaosmose nasce proprio da una citazione duchampiana: “C’est le regardeur qui fait la peinture”, è lo spettatore che fa l’opera; infatti essa è concepita non come una mostra (sebbene il termine si avvicini di più all’italiano, mostra, che al francese, exposition), ma come un “montrage”, unione delle parole “mostra” e “montaggio”. Il concetto è stato inventato da Robert Lapoujade, amico di Jean-Paul Sartre, negli Anni Cinquanta del Novecento, in seguito ripreso da Gilles Deleuze. Lebel aveva seguito come libero uditore i suoi corsi di filosofia. Secondo questo approccio, il montrage è un tentativo di costruire un percorso che non tenga conto delle categorizzazioni (movimenti artistici, anni, provenienza, cultura o contesto sociale), piuttosto crei un dialogo conflittuale e/o rivelatore sempre sul piano dell’uguaglianza: “Nella modalità di presentare le opere si tenta di far entrare i visitatori e le visitatrici nel movimento stesso del pensiero artistico e non nel suo risultato commerciale, ma nel processo di creazione stesso. Mi piace che le opere non siano morte o rigide, ma danzino non soltanto sulle pareti anche nello spazio. Una danza alla quale il pubblico può partecipare”. Non viene rispettata la cronologia, si confrontano tutte le tecniche, tutte le epoche, senza gerarchie.
Chi è Jean-Jacques Lebel
Nato nel 1936, Jean-Jacques Lebel è un artista, scrittore, anarchico militante (pilastro del Movimento del 22 marzo, uno che il ‘68 l’ha fatto sul serio) e anticolonialista. Figlio del critico, scrittore e collezionista Robert Lebel (1901-1986), fuggito negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale, Lebel sin da piccolo è cresciuto ammantato nell’aura surrealista di André Breton e letteralmente sulle ginocchia di Marcel Duchamp, su cui il padre scrisse la prima monografia in stretta collaborazione con l’artista (Sur Marcel Duchamp, Trianon, 1959; MAMCO, 2015). Nel 2013 Lebel ha costituito il suo “Fond de dotation”, tipologia di società che non esiste nel sistema italiano. “È una società che si pone fra la collezione privata e la fondazione. Ciò significa che io ho donato tutti i miei beni a questo Fond de dotation per privatizzare, diventano così fuori mercato, non si potranno mai rivendere. Ho fatto questo perché io sono un nemico assoluto del mercato d’arte, del Capitalismo in generale, sono anarchico e voglio assolutamente vivere non la cultura dominante, ma la contro-cultura, cioè mi sento fuori dal regime di schiavitù che si chiama Capitalismo”, così Lebel spiega il suo posizionamento. Proprio per questa ragione ha scelto la fotografia di Jeff Widener che ritrae il celeberrimo momento in cui un manifestante blocca la colonna di carri armati nel viale Chang’an, vicino alla piazza di Tienanmen di Pechino, il 5 giugno 1989. “Quell’uomo è l’artista che davanti ai carri armati del mercato dell’arte non si lascia scacciare”.
Il concetto di Chaosmose di James Joyce
Come il termine montrage, anche Chaosmose è un gioco di parole che unisce il caos e l’osmosi. Questo neologismo proviene dallo scrittore irlandese James Joyce che l’ha coniato nel suo libro Finnegans Wake (1939).
“Inventa un concetto filosofico per cui il mondo, la vita, l’umanità, è un chaosmose permanente nel quale difficilmente possiamo capire cosa sta succedendo”. Lebel riflette sui massacri, i genocidi, le guerre permanenti, le distruzioni, l’odio, il razzismo. “La storia dell’umanità è la storia della sua autodistruzione. E noi che facciamo cultura o contro-cultura siamo pazzi per passione, cerchiamo di esprimere emozioni e desideri altri. Noi con l’arte, con la poesia, con la filosofia e con lo sguardo critico cerchiamo di dare un senso alternativo alla vita. So che è quasi impossibile, ma noi tentiamo lo stesso. Chaosmose è un laboratorio che mette in presenza ai pubblici un’immagine dell’arte che non sia merce, ma un tentativo di ripensare il reale”.
Jean-Jacques Lebel e Felix Guattari
Questa concezione del reale è stata poi ripresa da uno dei più grandi pensatori e azionisti del XX secolo, Felix Guattari, nel titolo del suo ultimo libro, pubblicato a due mesi dalla sua morte, nel 1992. Chaosmose infatti rimanda anche all’evento che Lebel organizzò per la prima volta nel 1994 al Centre Pompidou intitolato Monumento a Felix Guattari (continuato poi ancora a Parigi alla Maison Rouge nel 2009 e nel 2012 al ZKM di Karlsruhe in Germania). Il monumento era un pretesto per riunire poeti, artisti, filosofi, militanti ecologici, psicoanalisti, psichiatri, persone che passano per strada, al fine di esprimere loro stessi. “Il monumento a Guattari non è affatto un monumento ma è un gioco, un pretesto ad una espressione collettiva ritualizzata”.
Le opere della mostra Chaosmose
“Chaosmose è un manifesto sul pensiero rizomatico della forma politica e artistica”. Ciò che conta perciò è saper trovare sempre nuove modalità per far continuare a danzare queste opere, ciò che conta è l’esaltazione del loro contenuto specifico e della loro polisemia.
Proprio per questa ragione a pochi metri di distanza da un’opera di Victor Hugo, comprata da Lebel per soli 2.000 franchi all’Hôtel Drouot, volteggia una maschera-elmetto del popolo amerindio zuñi, un disegno di Leonora Carrington, delle opere di Francis Picabia, Max Ernst, Guillaume Apollinaire, Antonin Artaud… Nonostante l’assenza di alcun legame temporale o sociale il contenuto è ciò che parla allo spettatore, l’intento originario per cui queste opere sono state fatte ha lo stesso rizoma, ovvero quel fusto perenne, quella radice che li accomuna.
L’arte e l’antropologia secondo Jean-Jacques Lebel
Chiaramente le opere dei cosiddetti “popoli indigeni” sono state fatte in una dimensione ritualistica, ma il pensiero parla a qualsiasi epoca. “C’è un libro meraviglioso del grande antropologo Claude Lévi-Strauss che si chiama La Pensée Sauvage. Esso esprime come questi popoli abbiano una maniera molto chiara e diversa di pensare. In qualsiasi contesto economico, politico o sociale di sviluppo o non sviluppo tecnologico abbiamo tutti in comune qualcosa, di essere delle persone con un inconscio, vuol dire che non siamo coscienti delle ragioni profonde per le quali facciamo quello che facciamo, perché la decisione è stata presa dall’inconscio. Lévi-Strauss parla di “pensée mythique”, anche se vengono da altri orizzonti abbiamo in comune con loro il pensiero mitico, dunque vanno messi nella stessa luce, con lo stesso amore e rispetto. È un fritto misto attraverso il tempo e lo spazio”.
Jean-Jacques Lebel e l’anticolonialismo
All’interno del percorso, quasi di fronte a quella maschera zuñi e accanto al manifesto Surrealista, Ne visitez pas l’Exposition Coloniale (1931), ci si imbatte nel video di Kader Attia, The Repair (2012). La ricerca dell’artista si è molto concentrata sul concetto di riparazione. A seguito di diverse visite in Africa e all’interno di molti musei d’arte occidentali ha notato come i popoli africani avessero l’abitudine di riparare gran parte dei loro oggetti, ma all’interno dei musei questi stessi oggetti spesso non venivano nemmeno inventariati. L’assoggettamento del cosiddetto “altro” e la prosecuzione della “necropolitica” da parte dell’Occidente, secondo lo storico camerunense Achille Mbembe, ha indotto Attia alla creazione di un video in cui i volti dei soldati sfigurati nella Prima Guerra Mondiale e in seguito “riparati” sono messi a paragone con molti degli oggetti africani aggiustati dagli stessi. “Quando c’è un massacro generale, come la Prima Guerra Mondiale, questo è ciò che succede ai corpi delle vittime. È pensabile di sopravvivere al massacro? Pensa agli ucraini e ai palestinesi, è pensabile? Sotto le bombe e la distruzione totale, è pensabile? Qual è la funzione dell’artista in questa situazione? Kader parla di questo. C’è il manifesto “Non vedere la mostra colonialista” dei Surrealisti e accanto si vede la distruzione dei corpi sotto le bombe della guerra ‘14 – ’18 e non è cambiato niente da allora, è solo peggiorato. L’umanità non migliora, peggiora. L’arte non dà delle risposte semplici, pone dei problemi senza soluzione, cioè tentiamo (e molto naïve quello che ti sto per dire) di dire l’indicibile, di formulare in maniera visibile delle interrogazioni, non delle risposte, che sono proibite dalla cultura dominante”.
La costrizione femminile nell’opera di Françoise Janicot
Allo stesso modo in apertura della mostra e in copertina del catalogo, l’opera dell’artista francese Françoise Janicot, Encoconnage, letteralmente “imbozzolamento” si confronta con la parte di auto-sottomissione della donna nella dominazione patriarcale. Il termine rimanda a ciò che fa il baco da seta: avvolgersi su se stesso per creare il bozzolo. Così nel 1975 Janicot ha realizzato nel suo studio una performance di ben quattro ore in cui ha avvolto il suo corpo con dello spago fino a ritrovarsi completamente avviluppata, mentre il marito e artista Bernard Heidsieck recitava una poesia. “Lei si mette in una gabbia, fa vedere la sua mummificazione, diventa una mummia, come nelle tombe in Egitto. Fa vedere come una donna viva, piena di energia creativa, stesse soffrendo (e soffriva) di non essere riconosciuta come essere specifico, ma piuttosto come “moglie di””. A ragion di questo, Lebel sottolinea nella scelta allestitiva delle due curatrici, Cécile Bargues e Anne Monfort-Tanguy, la mancanza delle immagini di documentazione del processo affinché si capisse che fosse un’azione artistica da cui in seguito è nata l’opera; manca quel “lavoro di chiarimento”.
L’allestimento dell’opera di Esther Ferrer
Altro problema espositivo si riscontra nell’allestimento dell’opera di Esther Ferrer Europortrait (2002). L’artista Fluxus si autoritrae nuda (all’epoca la donna aveva 75 anni), nell’atto di vomitare delle monete. “Ho vissuto con questo pezzo in casa per vent’anni e l’avevo messo molto in alto, a più di due metri e mezzo. Perché? Perché se tu metti questa immagine in alto e poi gli passi davanti, subito ti viene da pensare, se sei una persona che ha studiato la storia dell’arte, che ti stia vomitando addosso questo oro. E immediatamente pensi all’arte rinascimentale, alla pioggia d’oro di Tiziano, di Palma il Vecchio, di Rembrandt. Giove per possedere Danae si trasforma in pioggia d’oro. Dunque si vede che nell’inconscio dell’artista, senza deliberatamente deciderlo, questo straordinario archivio incosciente, che abbiamo tutti noi nei nostri sogni ed anche nei nostri incubi, che si chiama cultura e fa parte della nostra memoria collettiva. Mettere l’opera più in alto sarebbe stato fondamentale, così anche senza un discorso fai vedere al pubblico (montrage) il tuo intento, ma non hanno voluto farlo”.
La storia e la classificazione dell’arte secondo Jean-Jacques Lebel
Durante l’intervista Jean-Jacques Lebel ha dimostrato come e quanto la compartimentazione della storia dell’arte per come viene insegnata a scuola o in accademia non abbia ragion d’essere. Decostruisce così qualsiasi etichetta su cui molti movimenti si sono basati, come nel caso dell’Art Brut (se vogliamo definirla tale), presente nell’ultima sezione del montrage. Sbagliato concepirla come l’arte dei pazzi, degli anormali. Chi definisce il concetto di norma? “Ricadiamo sempre sullo stesso problema. È vendibile o non è vendibile? È commercializzabile o non lo è? È merce o non lo è? Dunque per me non esiste questa categoria di Art Brut. C’è l’arte che ti colpisce, che ti trasforma e l’arte che ti annoia. Artaud è stato in manicomio per nove anni, Unica Zürn è stata in manicomio. Ci sono almeno 5 persone in questa mostra che sono state in manicomio. Non esiste questa categoria è un’idea del cieco che non vede il contenuto, ma vede soltanto la posizione sociale dell’artista. C’è un pericolo tremendo di accettare la categorizzazione che è un qualcosa che non esiste. Se l’artista è in una crisi esistenziale, disegna, pensa, sente e soffre in una maniera completamente diversa dal solito e fa dei disegni differenti ma c’entra con la crisi dell’individuo che non accetta di essere messo in gabbia dal mercato. La sola cosa che mi interessa è il valore artistico, il valore commerciale o il livello sociale non mi interessa. Questa è la mia pazzia se vuoi…”. Forse davvero l’unico modo per poter “fare l’opera” è diventare tutti un po’ pazzi. Come Lebel.
Elisabetta Pagella
Parigi, fino al 3 febbraio 2025
Chaosmose
Centre Pompidou
https://www.fondationcartier.com/en
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