Arte, politica, identità e relazioni. Intervista all’artista Chiara Ventura
L’artista, nata nel 1997 a Verona, affronta temi complessi e urgenti, come le forme di violenza, le contraddizioni della società contemporanea e il bisogno di ridefinire identità e relazioni. Il suo lavoro è in mostra allo Scompiglio
Nel panorama dell’arte contemporanea italiana, Chiara Ventura sembra essere una delle voci più interessanti della sua generazione. Nata a Verona nel 1997, nella sua ricerca affronta temi complessi e urgenti, come le forme di violenza, le contraddizioni della società contemporanea e il bisogno di ridefinire identità e relazioni. Nel 2020 co-fonda il collettivo Plurale insieme a Leonardo Avesani e Giulio Ancona, esplorando nuove modalità di esistenza empatica e un’idea di “corpo espanso” che interroga le falle del quotidiano e le prospettive della Generazione Z.
Chi è l’artista Chiara Ventura
Attraverso performance mimetiche e interventi nello spazio pubblico, il suo lavoro si concentra su gesti minimi, materiali quotidiani e tensioni dialettiche, creando un ponte tra il personale e l’universale. La sua pratica individuale e collettiva è un continuo esercizio di superamento delle convenzioni, orientata verso una formalizzazione essenziale e contemporanea: l’abbiamo intervistata dopo aver visitato Le maniglie dell’amore, la mostra personale curata da Angel Moya Garcia alla Tenuta Dello Scompiglio, visitabile fino al prossimo 13 aprile.
Intervista a Chiara Ventura
Hai studiato con Giovanni Morbin. Cosa ti porti dentro di quegli anni di formazione?
È stato un incontro determinante, sia in termini artistici che esistenziali. Di quegli anni mi porto dietro un grosso peso: in Accademia era difficile parlare d’arte con i propri compagni di corso. Se ti iscrivi a Medicina e dici che vuoi fare il medico, le persone attorno a te non ti prendono per pazzo. In Accademia, quando ho detto che volevo fare l’artista, la reazione è stata quasi sbalordita, ma in modo negativo, era come se risultassi arrogante.
Davvero?
È anche per questo che ho iniziato a lavorare fuori da quelle mura, in strada proprio, con le mie prime performance, anche durante le ore di lezione, nonostante fossi iscritta a Pittura. Tra l’altro, se penso a Mi metto all’angolo, una delle mie primissime azioni, dove mi mettevo in un angolo in luoghi centrali (centro storico, centro commerciale, stazione centrale ecc.…) e ci restavo finché non ricevevo un segno di empatia umana… ecco oltre a incarnare perfettamente la mia posizione come artista-studente-persona, non esisterebbe se non avessi avuto quei compagni di corso e quel docente. Per fortuna ho incontrato Giovanni Morbin che da subito provava a farci capire che l’importante era l’arte, non la tecnica con cui la facevi e che effettivamente mi ha dato la possibilità di gestire come volevo il tempo e lo spazio del mio lavoro, del mio studio, nel senso del mio “studiare”. Non sentirmi vincolata a una tecnica è stato importante per conoscermi. Poi mi imbucavo al suo corso di Tecniche performative già dal primo anno, e sicuramente anche questo ha fatto il suo.
E Morbin a parte?
Il resto è stato piuttosto pesante. Pensando all’Accademia, ricordo proprio un paio di altri docenti legati però ad aspetti teorici, ma senza Morbin probabilmente sarei maturata dopo, forse sarei qualcos’altro. È strano da dire perché all’effettivo non mi ha insegnato niente, ma mi ha dato tutto.
In che modo il tema del corpo, in ottica femminista, si declina nella tua ricerca?
Per ogni lavoro parto dalle reazioni del corpo agli incontri con persone e situazioni. In generale, cerco di liberare il mio corpo da tutto ciò che trovo scomodo, spesso usando metafore o riferimenti al mondo domestico. La casa, per me, è come l’utero: c’è questa metafora di protezione e costrizione.
Spiegaci meglio…
Ad esempio, con le maniglie [Le maniglie dell’amore, alla Tenuta dello Scompiglio, Lucca, fino al 13 aprile 2025] ho lavorato con il curatore Angel Moya Garcia per creare un “cimitero”. 110 maniglie per porta sono installate a parete, una per ogni femminicidio registrato in Italia nell’arco di un anno. Nella stanza sono affissi nome e cognome di ogni donna, età e il luogo in cui è avvenuto l’omicidio, con un breve testo di cronaca che descrive seccamente il femminicidio. La luce è fredda. Mi interessa l’elemento della maniglia per porta perché è un oggetto comune, che tutti abbiamo in casa, e che segna un punto limite tra dentro e fuori, tra una situazione che ci sembra esterna, e una che dovrebbe essere intima e sicura. La forma sinuosa degli oggetti e il titolo “Le maniglie dell’amore” porta l’attenzione su un elemento fisico del corpo femminile, è anche qualcosa di erotico, una sessualizzazione. Il tema è: come gli uomini esercitano il possesso sui corpi delle donne. La cronaca racconta sempre la punta dell’iceberg, quando è ormai troppo tardi.
Altri esempi?
Con plurale, ad esempio, lavoriamo sul corpo dell’uomo bianco cis etero, su come questo tipo di corpo abbia assorbito il patriarcato, e su quanto faccia fatica a liberarsene quando se ne accorge. Ovviamente, non in una chiave vittimistica. Nelle nostre azioni ci sono delle forme rituali che decostruiscono il modo in cui quel corpo si dà al mondo e che poi lo spingono a trovare delle soluzioni a comportamenti problematici legati alla mascolinità tossica.
Qual è la differenza tra corpo e carne?
Mi verrebbe da dire nessuna, almeno nel mio lavoro e per come l’ho utilizzata fino ad adesso. C’è sempre una corrispondenza.
Quindi mangi carne?
Questo è un tema. Sono vegetariana di base, per il 90% vegana. Ci sono stati periodi in cui ho seguito una dieta completamente vegana, ma poi ho ripreso a mangiare carne occasionalmente. Recentemente sono stata a Vienna e ho mangiato un bratwurst, ad esempio. Questo dimostra che dentro di me non ho ancora piena consapevolezza del corpo animale. Mi sento in colpa per questo, entro in contraddizione, ma non riesco ancora a trasformarlo in una vera battaglia personale. Ci sto lavorando.
Come specie, credo che non siamo pronti ad accettare che anche mangiare carne è una forma di abuso. Sappiamo tutti cosa c’è dietro una bistecca, ma se la mangi comunque significa che, in quel momento, manca empatia.
Arte e politica. In che modo questa relazione si articola nei tuoi lavori?
Spesso ci penso e mi dico che il vero cambiamento avviene con i gesti che compio nella vita, nel quotidiano, più che con i miei lavori. Ad ogni modo ritengo che il gesto artistico sia comunque significativo, perché l’arte ha la capacità di trasmettere informazioni implicite attraverso le immagini e lasciare così dentro le persone dei messaggi che possono sedimentarsi nella coscienza e che possono quindi così avere un effetto trasformativo. Oggi l’arte ha il dovere di affrontare temi politici. Penso, ad esempio, al lavoro di Regina José Galindo sul femminicidio in Sud America o a quello di Marinella Senatore in Italia o vedi tutto il lavoro di Shirin Neshat, di Teresa Margolles, Laia Abril …. la denuncia degli artisti e delle artiste attraverso le loro opere sono importanti per avere una mappatura di quali siano le urgenze globali. Mi inserisco in questo disegno, prendo una posizione pubblicamente.
Nei miei lavori cerco di raccontare anche esperienze personali, traumi familiari che condivido per passare dal privato al pubblico. Basta guardare gli occhi delle donne che incontro per strada per vedere quanto sono feriti i nostri uteri. La nostra è una ferita nella coscienza collettiva, tramandata nel corso delle generazioni e c’è bisogno di fare sorellanza, denunciare, anche con l’arte.
E cosa ci puoi dire del concetto di soglia?
Mi interessa il punto limite, come il concetto di equilibrio. È come stringere un corpo: se stringi troppo, diventa dolore; se stringi meno, è piacere. Quel punto di tensione al limite tra piacere e dolore è ciò su cui mi concentro da sempre. Nel mio lavoro, la soglia diventa un territorio di tensione e rappresenta anche la scelta: puoi decidere se tenere qualcosa aperto o chiuso, come le maniglie di cui parlavamo prima.
Laura Cocciolillo
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