Il tempo e la natura. Intervista al grande artista Giuseppe Penone

Protagonista dell’Arte Povera e artista italiano tra i più noti a livello internazionale, Giuseppe Penone ha alle spalle oltre cinquant’anni di carriera. Li ripercorriamo con lui, attraversando le tematiche più importanti del suo lavoro e i suoi riferimenti

Impronte di luce è il titolo della mostra (da poco conclusa) di Giuseppe Penone, presso la Fondazione Ferrero di Alba. Nel testo introduttivo, pubblicato in catalogo, Jean-Christophe Bailly afferma: «Sono poche le opere il cui atto fondativo sia così netto e deciso come quelle con cui Penone ha inaugurato il suo percorso; e si potrebbe dire che con lui esiste una sorta di assoluto dell’inizio». Un’affermazione che non lascia spazio a dubbi. Ma lo chiediamo direttamente all’artista.
 
Cosa intende Jean-Cristophe Bailly quando parla di “assoluto dell’inizio”?
Nella mostra di Alba ho esposto alcune tele, che danno il titolo alla mostra. Misurano 183×183 cm, la dimensione del Modulor di Le Corbusier: dunque uno spazio architettonico. Ho fatto fare tele di 63 colori, quelli dell’architetto svizzero, e ho dipinto su di esse le impronte ingrandite delle mie mani. L’impronta si disperde nello spazio e connota la nostra esistenza: ognuno di noi nel corso della sua vita lascia impronte ovunque. Un’osservazione questa che ho fatto fin dall’inizio del mio lavoro, sulla quale continuo a riflettere e a lavorare. La mostra parte dalla prima opera del 1968, che ha iniziato a darmi visibilità: Continuerà a crescere tranne che in quel punto, una mano di acciaio, posta sul tronco di un albero in crescita. L’intenzione era quella di far lasciare all’albero la propria impronta, durante la sua crescita. Normalmente è lo scultore l’elemento vitale in azione, in quel caso invece era la materia ad essere attiva mentre la presenza dello scultore era passiva. Quest’opera ha introdotto anche il problema del tempo nella realizzazione del lavoro. Tutte le mie opere, che parlano dell’impronta, sono nate da questa.
 
Durante un nostro incontro a Torino di qualche anno fa, lei mi aveva detto di avere avuto la preziosa occasione di visitare le grotte di Chauvet. Parlando di queste impronte, mi ha fatto tornare alla mente quel mondo. Questo, al di là di qualsiasi questione di natura indicale e concettuale: per l’uomo primitivo l’impronta della propria mano era un modo per affermare la propria esistenza.
Probabilmente anche in quel caso c’era una volontà, una speranza di affermazione di identità nel futuro. Nel caso della grotta di Chauvet la cosa straordinaria, è che quegli uomini hanno cercato di raccontare la meraviglia che li circondava.Nella grotta si percepisce questa emozione ed è, credo, qualcosa che solo l’arte figurativa riesce a trasmettere. Se queste emozioni fossero state scritte, supponendo che ci fosse già una scrittura, non riusciremmo a leggerle in tutta la loro potenza. Sono opere di 30mila anni fa, che testimoniano una continuità espressiva.


 
Perché ha scelto proprio Le Corbusier?
In parte è una casualità, in parte è un interesse legato all’idea di astrazione dell’architettura, che, in realtà, non esiste. Quando ho fatto una mostra al Convento di Sainte-Marie de La Tourette, vicino a Lione, l’aspetto che maggiormente mi ha interessato è stato quello di porre il mio lavoro in dialogo con lo spazio. Un’operazione che faccio sempre. Ma a La Tourette la riflessione è stata più meditata. Prima di quella mostra, che ha avuto luogo nel 2022, mi avevano chiesto altre due volte di esporre nel convento, ma non se n’era fatto nulla. Tuttavia ero andato a vedere il luogo. La terza volta ho accettato, e mi è venuto spontaneo vedere quell’architettura come la cima frondosa di un albero, perché ci sono dei pilastri che si staccano dal suolo e poi ci sono tutte le infinite tavolette che sono servite per fare i casseri del cemento armato, che hanno lasciato sul cemento le impronte degli alberi. E quindi c’erano le colonne, le tracce del legno degli alberi che sono serviti a costruire l’edificio, l’intonaco che è una sorta di bugnato che ricorda in qualche modo le foglie, la vegetazione e, sui balconcini, ci sono dei motivi geometrici traforati, come delle foglie attraverso le quali filtra la luce. Nelle balaustre dei terrazzini ci sono dei ciottoli incastonati che paiono foglie: è molto descrittivo, e rappresenta, a mio avviso, qualcosa di naturale. Le Corbusier non lo ha mai dichiarato, ma sicuramente ha voluto creare in quel luogo un’architettura che è una sorta di ambiente urbano all’interno della natura che lo circonda, un ambiente urbano mediato dalle forme naturali. Anche in altre sue opere è evidente questo rapporto. Ho fatto questo lungo preambolo per spiegarle perché ho fatto fare delle tele con i diversi colori di Le Corbusier. Ho eseguito dei frottage dell’edificio del convento, partendo dalla cripta della chiesa e seguendone l’architettura: i pilastri come se fossero dei tronchi di un albero, il bugnato come fossero le foglie, insomma ho ricostruito l’idea di un albero attraverso il frottage.
 
 
Dalla fine degli Anni Sessanta lavora con la natura e non sulla natura. Nella sua opera si avverte un continuo passaggio di forze, di trasmissione di energie…
Sì. Già nel lavoro con la mano che stringe l’albero, del quale ho parlato poc’anzi, il rapporto con la materia era paritario: si tocca una superficie e allo stesso tempo si è toccati dalla superficie stessa. L’albero ha collaborato alla creazione dell’opera. La mia presa era un gesto simbolico. La natura partecipa alla creazione delle mie opere: le foglie che ho raccolto per fare Respirare l’ombra o le spine dagli alberi sono elementi che mi sono serviti per esprimere queste idee, per riflettere su questa azione. Nel momento in cui ho fatto questi primi lavori c’era, da parte del mondo dell’arte, scarsa attenzione nei confronti della natura. Le opere nascevano e si sviluppavano negli atelier degli artisti non all’esterno. Io lavoravo con le proporzioni del mio corpo, sulla realtà naturale che mi circondava. Partivo da un’analisi della realtà per esprimere una continuità con la storia dell’arte.
Giuseppe Penone. Photo Silvia Muratore e Bruno Murialdo
Giuseppe Penone. Photo Silvia Muratore e Bruno Murialdo

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Angela Madesani

Angela Madesani

Storica dell’arte e curatrice indipendente, è autrice, fra le altre cose, del volume “Le icone fluttuanti. Storia del cinema d’artista e della videoarte in Italia”, di “Storia della fotografia” per i tipi di Bruno Mondadori e di “Le intelligenze dell’arte”…

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