L’eredità poetica di Nam June Paik in una importante mostra al MAO di Torino
Il Museo D’Arte Orientale di Torino dedica un’esaustiva retrospettiva all’iconico artista coreano offrendo uno sguardo interessante anche sulla cultura e le tradizioni del suo Paese d’origine

Quando si pensa a una mostra dedicata a un artista così importante e storicizzato come Nam June Paik (Seul, 1932 – Miami, 2006) è inevitabile aspettarsi allestimenti monolitici nei quali oggetti e dispositivi tecnologici vintage si susseguono al pari dei banchetti di una qualunque fiera di elettrodomestici. Per fortuna questo non accade nell’ultima retrospettiva “allargata” su Paik, Rabbit Inhabits the Moon. L’arte di Nam June Paik allo specchio del tempo, che il MAO-Museo di Arte Orientale di Torino è riuscito a realizzare con la tipica raffinatezza estetica e concettuale che lo contraddistingue.
La mostra sul background di Nam June Paik al MAO di Torino
Concepita in occasione del 140° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Corea e Italia, l’esposizione si avvale di un team curatoriale formato da Davide Quadrio, Joanne Kim, Anna Musini e Francesca Filisetti per offrire uno sguardo più ampio sulla poetica di Paik. Partendo da una famosa leggenda popolare, che come protagonista ha per l’appunto un coniglio lunare, si delinea così una narrazione suggestiva e sognante che rivela l’immaginifico patrimonio culturale dal quale attinge la ricerca dell’artista stesso.
Si tratta di un progetto stratificato che, grazie alla consulenza curatoriale e scientifica di Manuela Moscatiello, di Kyoo Lee, e del direttore della Fondazione Bonotto, Patrizio Peterlini, approfondisce le visioni e le connessioni spirituali e artistiche che intercorrono fra un Paese come la Corea e il nostro.
Un concept lineare e pulito reso ancora più esaustivo dal dialogo che si viene a creare fra il pioniere della videoarte, le opere di artisti coreani contemporanei – come Jesse Chun, Kyuchul Ahn, e Shiu Jin – e notevoli manufatti tradizionali provenienti da istituzioni quali il Musée Guimet – Musée national des Arts asiatiques, il Museo delle Civiltà di Roma, e il Museo d’Arte Orientale “E. Chiossone” di Genova.
Ma da dove viene questo famoso coniglio?

Il mito del coniglio sulla luna di Nam June Paik
Utilizzato come espediente narrativo per alludere all’aspetto magico-contemplativo del modus operandi e vivendi di Paik, il mito del coniglio lunare attraversa diverse culture dell’Estremo Oriente (Cina, Giappone e Corea) fino a toccare l’Asia centrale, l’Iran e la Turchia. Le origini di questa storia derivano da una pareidolia che, nell’immaginario collettivo asiatico, renderebbe visibile sulla superficie lunare la figura di un coniglio armato di mortaio da cucina.
Al centro di questo racconto, che si collega facilmente all’antica fiaba buddhista Śaśajâtaka, vi è Usagi, un nobile animaletto che, dopo aver deciso di sacrificare la sua vita per sfamare un anziano vagabondo, viene fermato e premiato da una creatura divina che lo porta in pianta stabile sulla luna. Rappresentato come un lavoratore instancabile, dedito col suo pestello a preparare continuamente cibo per gli abitanti lunari, il coniglio è nella cultura coreana simbolo di purezza e altruismo.

Il percorso espositivo della mostra su Nam June Paik
A introdurre lo spettatore in questo viaggio nella tana del bianconiglio (giusto per citare un altro celebre leporide) è la musica: elemento fondamentale in grado tanto di ricreare atmosfere intime e romantiche, quanto da fungere da punto di contatto con le sperimentazioni Fluxus di Paik che, ricordiamo, a suo tempo si formò come compositore e musicologo. Sono questi i casi dell’intervento sonoro Sounds Heard from the Moon. Part 2, di Jiha Park, e dell’installazione Nocturne No. 20 / Counterpoint (2013-2020) di Kyuchul Ahn che propone una rivisitazione della musica di Chopin attraverso una performance in cui 89 martelletti di un pianoforte vengono gradualmente rimossi fino alla graduale scomparsa del suono.
Un filo conduttore che unisce diverse sale come ad esempio quella dedicata a quattro video realizzati tra il 1966 e il 1986 (esposti in forma circolare quasi a richiamare la sfericità della luna), quella rivolta alla lunga collaborazione con la violoncellista newyorkese Charlotte Moorman, e la sezione incentrata sulla componente sciamanica che ha influenzato sia la processualità di Nam June Paik, sia la pratica dell’amico Joseph Beuys (celebrato in un rituale d’addio, a Seoul nel 1990, presente nel video dello stesso anno, Beuys and Shaman). Curata da Kyoo Lee, professore di Filosofia e Studi di Genere alla City University di New York, questa parte specifica è forse la più affascinante e introspettiva di tutta l’esposizione.
Tramite decorazioni di carta appese al soffitto, due ritratti del fotografo coreano Chan-ho Park (raffiguranti rispettivamente un guardiano del rito e la sacerdotessa Kim Keum-Hwa), e video documentativi, viene offerto un assaggio emblematico di quella dimensione ultraterrena nella quale creazione e disfacimento danzano insieme con armonia. Peccato soltanto per la sensazione vagamente claustrofobica, da horror vacui, data dalla presenza di un bel numero di oggetti collocati in uno spazio un po’ troppo piccolo per contenerli tutti.








Lo sguardo contemplativo e avveniristico di Nam June Paik
Fra oggetti antichi (vasi, specchi e tessuti) e lavori iconici di Paik – come la videoinstallazione Ecce Homo del 1989, la scultura in porcellana Moon jar, e la grande serigrafia Fluxus Island in Décollage Ocean –, si arriva così all’intervento che dà il titolo all’intera mostra. Formata dalla scultura lignea di un coniglio posizionata difronte a un piccolo televisore a tubo catodico che trasmette l’immagine di un evocativo cerchio bianco, l’opera invita il pubblico a riflettere non solo sulla sensibilità dell’artista ma soprattutto sulla sua illuminante eredità.
L’impatto di Paik nelle generazioni successive fa parte di un lascito immenso che si evince anche dal percorso espositivo che, volto proprio a lanciare uno sguardo meno antropocentrico (forse utopico?) sul nostro futuro, chiude il tutto con Architecture of Mushroom, il bellissimo video di Sunmin Park. Protagonisti di questo atipico documentario sono i funghi della foresta di Gotjawal, sulla grande isola di Jeju che, mediante le riflessioni di 13 architetti, esortano a reimmaginare la relazione tra l’essere umano e la natura.
La performance di Francesca Heart per il Public Program della mostra
Come ormai da tradizione per il Museo torinese, anche in occasione di Rabbit Inhabits the Moon, Chiara Lee e Freddie Murphy hanno concepito un Public Program che ha visto alternarsi musiciste e performer quali Gooseung, Hyunhye (Angela) Seo, Diana Lola Posani, e Bela.
A chiudere ufficialmente la rassegna, nonché la mostra, sarà la particolare performance di Francesca Heart dedicata alla carica femminile dell’acqua, prevista per domenica 23 marzo.
Valerio Veneruso
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