Dopo 36 anni chiude a Roma la galleria d’arte di Stefania Miscetti. L’intervista

Uno spazio espositivo abitato da un gatto rosso, tra le opere di Abramovic e Nitsch. Gli artisti che venivano rimorchiati. Un archivio donato alla Gnam ma ancora non fruibile. Il mondo delle gallerie che cambia. Intervista a tutto campo a Stefania Miscetti in attesa che si inauguri un suo nuovo progetto a Roma e una serie di attività diffuse

Ma che mi devi chiedere? Tu sai tutto di me”. Assolutamente falso. È vero che Stefania Miscetti, celebre gallerista in Roma, ed io siamo “sororali” amiche fin dagli Anni Ottanta, ma non è vero che so tutto di lei. Sia perché, se vuole, Stefania sa ben tenere i suoi progetti al riparo dal chiacchiericcio, sia perché riesce spesso a sorprendere. 

La chiusura dello spazio di Stefania Miscetti

Come quando il 13 marzo 2025 ha spedito a tutto il suo indirizzario una mail che recitava: “voglio comunicarvi il cambiamento dell’indirizzo del mio studio: lo spazio in Via delle Mantellate, sede storica e principale sede espositiva, luogo di incontro e scambio culturale, non è più in uso”. È così che molti amici hanno appreso che la storica galleria di Trastevere nata nel 1989 chiudeva per sempre, ma subito dopo venivano consolati dalla notizia che la drastica decisione non avrebbe cambiato “l’indirizzo programmatico e progettualelo Studio Stefania Miscetti continuerà come sempre a realizzare iniziative, in spazi diffusi a Roma e altrove!”. Quali? Dove? Quando?  Il comunicato non dice molto di più, lei non si sbilancia le persone si telefonano per carpire qualche notizia. 

I nuovi progetti di Stefania Miscetti

Per questo eccoci a conversare pubblicamente sui motivi di questa decisione, sui ricordi che ci legano e sulle iniziative vagamente annunciate. A cominciare da quella, che qui rivela già pronta per la prima metà di maggio: un intervento di Bruna Esposito che mette in scena il secondo atto del suo progetto Altri Venti. Dopo Ostro che presentò appunto negli spazi della Galleria, è ora la volta dello Scirocco: un vento che arriva dal sud est attraversa il deserto e il mare. Un vento caldo, avvolgente, mediterraneo che porta cambiamenti… insomma il vento giusto per una nuova avventura.

Intervista a Stefania Miscetti

Ci hai preso alla sprovvista. Avevi appena smontato la tua ultima originale fatica, “My Generation” che metteva in mostra la collezione di fanzine di Giancarlo Soldi ed ecco che decidi di chiudere la galleria. In molti, alcuni preoccupati, altri stupiti, mi hanno chiesto: “perché lo fa”? Non sapendolo, eccomi qui, a chiedertelo io.
La formula “galleria più mostra” era per me esaurita. Forse per una persona che inizia adesso è diverso, ma io ne sentivo la noia, la ripetizione. E in 35 anni troppe cose erano cambiate, a cominciare dalle persone.

Intendi collezionisti, critici, artisti? Insomma, chi in particolare?
Tutti. Non c’era più lo stesso pubblico. L’ho capito quando, telefonando per un invito, ho cominciato a sentirmi dire “grazie non posso venire in galleria, ma ho già visto tutto su Instagram”. Un tempo arrivava sempre gente, la galleria era frequentata quattro giorni alla settimana, sapevo già chi sarebbe venuto di mercoledì e chi di giovedì. Una collezionista storica come Bianca Attolico portava amici e chiedeva “chi passa oggi?”. La galleria funzionava anche come scambio di informazioni. Parliamo di un momento in cui Internet non c’era e quindi chi tornava da una biennale o da una fiera all’estero veniva apposta per raccontare ad altri cosa aveva visto.Poi c’erano giovani collezionisti che pagavano a rate un po’ per mese, quindi tornavano con regolarità, scoprivano altre opere e compravano di nuovo. Infine, gli studenti che avevano bisogno di consultare quei cataloghi introvabili in biblioteca o le riviste straniere che io riportavo dai viaggi, New York soprattutto. Ho sempre cercato di offrire quello che piaceva a me e poi condividerlo. Si trattata di girare, cercare e riproporre. Per questo ogni mostra era prodotta e presentata per la prima volta a Roma, mai prese mostre da altre gallerie.

Avevi anche uno strano modo di approcciare gli artisti. Ricordo quando mi hai chiesto di aiutarti a attaccare discorso con Orlan durante un opening della Biennale perché tu non parlavi francese…
È vero! Praticamente li rimorchiavo! Così è stato anche con Alfredo Jaar. Ho visto un lavoro nel 2002 a documenta11 e subito dopo ho fatto la sua prima mostra italiana in galleria. Michal Rovner l’ho incontrata in fiera a Los Angeles e pochi mesi dopo abbiamo portato il suo bellissimo film Border al Palazzo delle Esposizioni. Il rapporto con Bruna Esposito è cominciato grazie ad una amaca che avevo comprato in Cambogia: me la chiese in prestito per una sua bellissima performance a Villa Medici e subito dopo diventò lo spunto per una straordinaria installazione a via delle Mantellate.

Più che gallerista sei stata una sorta di curatrice…
Questo no. Mi interessa affiancare gli artisti nel processo creativo, vivo la felicità di essere un facilitatore nel vedere un’opera che prende forma. Ma non sono un curatore. Piuttosto un promotore. Resto sempre un passo indietro con l’infantile curiosità che mi appartiene.

Maria Lai, Una Fiaba infinita, 1994, installazione site-specific, foto di Corinto Marianelli
Maria Lai, Una Fiaba infinita, 1994, installazione site-specific, foto di Corinto Marianelli

Riguardando il tuo sito sono io la prima a stupirmi di quante cose hai fatto! Mostre, concerti, happening, eventi… con quale economia sei riuscita a sostenere quest’intensa attività dal momento che non hai mai fatto fiere e ti definisci “un cattivo mercante”?
Sulle mie forze. Ovviamente vendendo opere a privati ma anche a musei. In parte finanziando progetti grazie al mio lavoro di architetto e grazie alle co-produzioni con Istituti e Accademie straniere. Anche per questo non ho inseguito il sistema delle fiere perché ho concentrato molte energie su Roma e sulla ricchezza delle sue istituzioni.  Ho la fortuna di vivere in questa straordinaria città con i suoi luoghi da scoprire e colonizzare. Io non mai sentito quello che spesso sento definire “il peso della Storia”. La storia non è pesante, dobbiamo usarla, passarci attraverso, renderne facile la comprensione. Per questo ho cominciato a nutrire il desiderio di uscire di casa, trovare altri spazi… Del resto io sono nata con Maria Lai, la mia “maestra sarda”. L’ho conosciuta che avevo 18 anni e mi ha cambiato per sempre la mente. Una maiuscola Maestra dello sguardo, del fare e del conoscere. Un’artista che sapeva spaziare tra teatro danza. Mi ha insegnato a non chiudermi mai in un recinto.

E così alla metà degli Anni Novanta hai cominciato a uscir di casa. Ricordo bene “Projected Artists” e quelle immagini proiettate sui monumenti romani.  Un progetto pioniere: Nancy Spero al Pantheon; Yoko Ono a Piazza Navona; Paolo Canevari sulla facciata del Museo Barracco; Adrian Tranquilli all’Oratorio dei Filippini; mentre Doris Bloom con William Kentridge in Italia per la prima volta, presentavano il film animato “Memory&Geography” a San Giorgio al Velabro.
È stata la mia prima uscita importante. Ma poi è diventato un metodo. Da qui è nato anche “She Devil” (ciclo di rassegne itineranti dedicato ad opere video di artisti internazionali sui temi del patriarcato, ndr.) come un progetto denso, complesso ma esportabile e leggero. Volevo strappare quel sipario che divide il pubblico dagli spazi dell’arte contemporanea. Perché a volte le persone si sentono a disagio nell’entrare in una galleria. Temono di non capire, sono intimidite. Io credo che l’arte vada vissuta quindi il fatto di vestire con una cosa leggera come una proiezione, monumenti ritenuti intoccabili significava andare incontro alle persone e offrire il contemporaneo in modo meno elitario.

La galleria a Via delle Mantellate 11 non era molto elitaria: il tuo gatto rosso girava con un campanello al collo, enormi piante sbucavano dal lucernaio, dietro una parete avevi costruito una cucina perché il piano rialzato era la tua casa…
Lo fu per un periodo: un periodo durato 15 anni. Era un modo per sentirmi unita alle opere. Svegliarsi con il rumore del video di Marina Abramovic che puliva le ossa in Balkan Baroque, litigare con il gatto che saltava sulle installazioni di Hermann Nitsch, aprire la porta a chi voleva venire a meditare di fronte alla installazione di candele di Anya Gallaccioche avevano trasformato la galleria in un tempio buddista… Il lavoro e la vita coincidevano: chiusa la galleria si spostava il tavolo delle firme, si apparecchiava e si cenava lì. O si srotolavano i tappeti per sedersi in terra a bere un tè. Non era comodissimo, ma sicuramente vitale. E poi ho sempre voluto che gli artisti fossero presenti al montaggio della mostra. Restavano lì anche giorni e questo contribuiva all’uso domestico dell’intera galleria. 

Come si dice: tutta casa e white box. Peraltro, fu tra i primi ad essere aperti a Roma dove le gallerie, all’epoca, avevano sede per lo più in appartamenti. 
Era uno spazio di tipo internazionale; eppure, assolutamente romano: di fronte al carcere di Regina Coeli, tra il Tevere e la montagna del Gianicolo. Per di più quella era conosciuta come strada degli artisti da Mario Schifano a Maurizio Mochetti mentre la mia galleria occupava l’ex studio di Gino De Dominicis. Il carcere, poi, era un catalizzatore, gli artisti ne erano affascinati: Yoko Ono ne trasse ispirazione per la sua scultura Piece of Sky; Mochetti mise in piedi uno spettacolare progetto con un laser che attraversava ad uno ad uno tutti gli spazi a piano terra della via, per scagliarsi infine contro la prigione e Ben Vautier compilò le sue scritte sulla Liberté a ridosso del muro… unica volta che la polizia giudiziaria venne a chiedere spiegazioni. Insomma, ho davvero sperimentato la fusione di arte e vita. Poi negli ultimi cinque anni ho traslocato, forse anche questo mi ha dato la distanza per capire che un ciclo era chiuso.

Ma già nel 2020 avevi donato tutto l’archivio alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna…
È un disastro. Una quantità di materiale davvero importante che documenta con foto e altro tutte le mostre, ora è sepolto. Dallo scorso luglio la biblioteca e l’archivio alla Gnam sono chiusi e chissà se e quando riapriranno. Pensare che avevo deciso di fare la donazione perché subissata da richieste di studenti che chiedevano di consultare cataloghi e documenti, quindi ho creduto che fosse mio dovere cedere la mia storia a una istituzione pubblica. Ho persino lavorato a una organizzazione preliminare che la rendesse perfettamente comprensibile a chi doveva metterci le mani. Ora gli studenti mi cercano di nuovo, io li ricevo ma non ho più niente da dare in consultazione. Così racconto quello che mi ricordo. 

Certo senza uno spazio, non sarà facile mantenere quel rapporto così fortemente empatico con il mondo dell’arte che ti ha caratterizzato in tutti questi anni…
Dovrete soltanto seguirmi un po’ di più. La prossima installazione che produco sarà in piedi per tre mesi e io sarò lì tre giorni a settimana come accadeva in galleria. E forse sapendo che questa cosa sarà fugace e temporanea le persone saranno anche più motivate a venire.

Dove dobbiamo venire?
In un giardino che era stato un “giardino di delizie” ed ora è il giardino che circonda una casa di riposo e la chiesa di Santa Francesca Romana a Trastevere. Un posto segreto ma comunque abitato. Appena visto ho subito pensato di realizzare lì la seconda parte del progetto di Bruna Esposito su “Altri Venti”, e dopo “Ostro” che abbiamo fatto in galleria in tempo di Covid, è l’ora dello Scirocco in un luogo bello ma austero, che appartiene a molto a Bruna e alla sua poetica frugale, mai patinata. 

Come sei arrivata nel giardino?
Per una catena di contatti. Ho incontrato don Massimiliano Floridi che è il diacono che gestisce lo spazio. Gli ho raccontato di Bruna e del progetto che tocca tutti i venti, parla di clima, di terra di sostenibilità e accessibilità che sarà lo spazio dove ospitare incontri e pensieri.

Preferisci lavorare con il pubblico che con i privati?
Dipende dalle persone: ci sono musei che comprano opere e poi le lasciano morire nel deposito. Oppure pubblici funzionari fantastici come l’ex direttore dell’Archivio di Stato Michele Di Sivo che per la mostra di Fiorella Rizzo ci ha davvero aiutato e messo disposizione tutto il possibile. Altri invece hanno fatto danni come la Galleria Nazionale che ha rifiutato importanti archivi e chiuso al pubblico la biblioteca. Comunque quello che voglio fare ora è lavorare con artisti disposti a uscire dalla comfort zone della galleria.

Ma spesso i funzionari pubblici sono del tutto a digiuno di arte contemporanea, come riuscirai a convincerli?
Li travolgerò. Se mi innamoro di una cosa faccio di tutto perché se ne innamorino anche gli altri e spesso ci riesco. Un tempo mi trattenevo, cercavo di tenere atteggiamenti professionali, consoni e distaccati. Ora non mi interessano più le giuste distanze. Mi lancio nelle cose a testa bassa. E ho scoperto che il bello della vecchiaia è potersi permettere l’entusiasmo.

Alessandra Mammì

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