Ciò che cresce sui muri entra nella tela. La mostra di Alessandra Giovannoni a Roma
In mostra alla galleria di Francesca Antonini, la nota paesaggista romana Alessandra Giovannoni torna a dipingere la sua città con uno sguardo neo-macchiaiolo rivolto ai dettagli più sfuggenti ed evocativi delle sue passeggiate

Pasa kynesis aletés, ogni mutamento è sintomo di imperfezione, scriveva Aristotele a proposito del cosmo (Metafisica, IX). Nella sua nuova mostra, Volevo metterci il cielo, l’artista Alessandra Giovannoni (Roma, 1954), elegge proprio l’imperfezione a soggetto delle sue tele. Paesaggista sin dagli esordi, Giovannoni sceglie di ritrarre quelle escrescenze erbacee che sbocciano sulle mura della Città Eterna. Le medesime fioriture spontanee di cardi, di fichi, di edere e margherite che Giorgio Manganelli definiva “cellulite dei secoli”.
La mostra di Alessandra Giovannoni a Roma
Dall’esposizione – visitabile fino al 24 aprile 2025 alla galleria Francesca Antonini Arte Contemporanea – si indovina l’afflato di uno sguardo verista. Gli impasti materici, la resa cementizia dei muri, le imperturbabili velature sovrapposte, i colori terragni o viranti verso i verdi-violacei del fogliame, concorrono alla resa di una pittura quasi di macchia – da cui il diffuso testo di accompagnamento di Michele Tocca. Anch’egli ascrivibile, in pittura, ad una radice neo-macchiaiola.





I dipinti di Alessandra Giovannoni da Francesca Antonini
La res extensa di Pascal, quello spazio infinito che occupa la Natura nella mente del mondo, è scalzata, (è scalzato il cielo), in luogo di un focus molto ravvicinato che rifugge il concetto della “bella inquadratura”, rinviando a visioni murali estese, sfumate. Inscritte entro una dimensione aleatoria. Entro una sintassi composta di scarti che divengono spunto. Ci sono i riccioli arrugginiti di un cancello su strada, c’è un nasone (la tipica fontanella urbana), ci sono, mute e indisturbate, le presenze botaniche rampicanti. Ciò che al flanêur romano entra nella coda dell’occhio e subito si dissolve, qui resta fissato, al centro del quadro. Come quel sovrappensiero sul quale l’artista invita a tornare. Il pennello segue, per così dire, la traccia poetica “della verzura emarginata”. Senza fregi, senza pretese.
Francesca de Paolis
Libri consigliati:
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati