Una mostra per reagire alle ingiustizie. L’invito di Shirin Neshat dal PAC di Milano
Ha un carattere universale il messaggio veicolato dall’artista iraniana con "Body of evidence”. Una mostra necessaria che ripercorrendone la carriera si può leggere come un manifesto d’intenti politico e sociale per esortare il pubblico a uscire dalla neutralità

Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1999, Leone d’Argento per la miglior regia al Film Festival di Venezia nel 2009 e Praemium Imperiale a Tokyo nel 2017, Shirin Neshat porta a Milano la sua voce delicata e un appello potente: “Oggi più che mai abbiamo bisogno di artisti, di cultura che ci aiuti, che ci ispiri, che ci provochi, che ci parli e confronti le forze al potere. Non possiamo restare neutrali”.
È una Shirin Neshat (Qazvin,1957) quanto mai attuale e urgente quella in mostra al Pac – Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, con un’ampia scelta di lavori che ripercorrono un’esperienza artistica che da oltre trent’anni fa riflettere attraverso il proprio sguardo sul mondo. Body of evidence – Il Corpo del reato – a cura di Diego Sileo e Beatrice Bendetti, è già dal titolo un manifesto d’intenti politico e sociale; nella misura in cui, come suggerisce la curatrice, riguarda la polis, la comunità, ovvero tutti noi e il nostro modo di stare al mondo. E cosa, più del corpo, specialmente femminile, eterno luogo di contesa e di potere, può testimoniare lo stato di ingiustizia e violenza ma anche di determinazione e resilienza alla fiera ricerca della libertà in cui versa la condizione umana?
Al PAC di Milano la visione potente e provocatoria di Shirin Neshat
Con oltre 200 immagini fotografiche e una vasta selezione di video, la mostra restituisce il percorso dell’artista, dai primi Anni 90 ad oggi, attraverso la sua esperienza di donna iraniana e Newyorkese d’adozione; che, esiliata, è approdata a una visione che supera ogni contingenza geografica e culturale per guardare dritto negli occhi l’essere umano, con i suoi sogni, desideri e paure. Un’indagine universale sulla condizione umana che interroga tutti noi.
Come da un moderno matroneo, entrando ci guarda dall’alto la celebre serie Women of Allah (1993-1997), in cui l’artista si ritrae e ritrae donne musulmane velate come combattenti, eroine e martiri che chiedono giustizia ad un mondo in cui giustizia non c’è. È l’opera che consacra l’arte di Shirin Neshat in occidente; in cui si rivela quella visione sensibile e potente, cifra presente in tutta la sua produzione, che le permette di intrecciare in un unico momento espressivo sentimenti contrastanti e opposti – bellezza e crudeltà, violenza e compassione, forza e fragilità – restituendo in solo sguardo la complessità dell’animo umano.
Sono immagini provocatorie che, sfuggendo ai consueti meccanismi visivi, inducono lo spettatore a un continuo processo di scelta e decodificazione del reale: perché la verità – a differenza della propaganda – è lontana da ogni autoritarismo e non è mai univoca. É complessa, sfaccettata, ci obbliga a pensare e a farci delle domande.
Un’indagine universale: la condizione femminile, il potere, la giustizia, la libertà
Il linguaggio di Shirin Neshat ci coinvolge e ci chiede di non restare estranei. Messaggio che diventa ancora più esplicito quando dalla fotografia l’artista passa alla produzione video, iniziando a raccontare storie utilizzando per la stessa narrazione due schermi contrapposti che immergono lo spettatore in un dialogo serrato tra diversi punti di vista. Così, in Turbulent (1998), allo straziante canto femminile di fronte ad una platea deserta, fa da contraltare un impotente sguardo maschile, in un’impossibilità di relazione di cui diventiamo partecipi e testimoni. Temi, quello della divisione sociale e dell’incomunicabilità, che ritroviamo in chiave corale in Rapture (1999) e più intima in Fervor (2000). In questi lavori, come in quelli successivi, che affrontano il delicato tema dell’identità, tra cui: Soliloquy, 1999 e Roja 2016, la protagonista è sempre una figura femminile, alter ego dell’artista, in una riflessione che, partendo dalla condizione della donna in Iran, diventa un’indagine universale sulle dinamiche di condizionamento sociale, potere, giustizia e libertà.
L’appello di Shirin Neshat: non possiamo restare neutrali
Nel 2019 l’artista gira Land of Dreams, prima opera ambientata completamente negli Stati Uniti in cui la protagonista, iraniana, bussa alle porte di cittadini americani alla ricerca dei loro sogni, per capire cosa significhi essere liberi, annotando e trascrivendo poi le risposte in lingua Farsi. È un percorso creativo quello di Shirin Neshat che va di pari passo con la storia, arrivando a congiungere in un’unica visione Oriente e Occidente, per rivelarci che la natura umana è la stessa e, ovunque, vive degli stessi sogni e delle stesse paure.
In un momento storico di grande crisi per le democrazie in occidente Body of Evidence è una mostra necessaria, in grado di metterci in guardia di fronte alle dinamiche umane di potere, paura e controllo a cui tutti – dall’Iran, agli Stati Uniti e all’Europa – siamo esposti e che minano alla radice la nostra libertà. È un richiamo a reagire che Shirin Neshat rivolge a tutti noi: proprio come nella straordinaria scena finale di The Fury (2023) che chiude simbolicamente il percorso di questa mostra,in cui il dolore del mondo di fronte alla violenza di chi è indifeso si trasforma in ribellione collettiva per le strade di Brooklyn, divenendo una danza furiosa e spontanea che insorge contro ogni oppressione e ogni sopruso perpetrato sull’essere umano. Non possiamo restare neutrali.
Emilia Jacobacci
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