Thomas Schütte e Tatiana Trouvé: luci e ombre di due grandi mostre a Venezia
Palazzo Grassi e Punta della Dogana inaugurano le mostre degli scultori Tatiana Trouvé e Thomas Schütte, per indagarne anche le meno note produzioni grafiche. Due grandi rassegne personali che, tuttavia, non convincono pienamente

Difficile pensare che portare due scultori in una città come Venezia, dove e il passato e il presente parlano la lingua della pittura, non fosse un azzardo. E se la mostra da poco conclusa di Giorgio Andreotta Calò a Ca’ Pesaro sembrava riuscire a rivendicare la vitalità della scultura, in risposta ad Arturo Martini che nel 1945 ne decretava la morte, le nuove grandi esposizioni della Collezione Pinault a Venezia, nelle sedi di Palazzo Grassi e di Punta della Dogana, lasciano alcuni dubbi. Certo, parlare delle mostre dell’italo-francese Tatiana Trouvé (Cosenza, 1968) e del tedesco Thomas Schütte (Oldenburg, 1954) solo in merito alla scultura sarebbe ingiustamente riduttivo: entrambe presentano infatti una grande quantità di opere su carta che in un caso supportano e nell’altro approfondiscono il corpus scultoreo di cui il bronzo è l’ineccepibile, ma non per questo meno ingombrante, principe. Molto presenti all’interno della Collezione Pinault, nucleo primario di ambedue le mostre, sia Schütte sia Trouvé intrattengono un rapporto speculare con la rappresentazione della figura umana: se il primo la esaspera, deformandola e manipolandola, la seconda la cela e la sottintende.

La mostra di Tatiana Trouvé a Palazzo Grassi
Curata da Caroline Bourgeois e James Lingwood e intitolata La strana vita delle cose, la grande mostra personale di Tatiana Trouvé a Palazzo Grassi si suddivide sostanzialmente tra scultura (al primo piano) e opere su carta (al secondo). Una scelta piuttosto funzionale, ma poco coraggiosa, soprattutto alla luce di quanto sia stretto il dialogo tra i due media per l’artista: nel confronto tra le carte – che comprendono il disegno a matita, ma si presentano in effetti come composizioni polimateriche – e le sculture, appare evidente una comune cosmologia, che non esclude tuttavia l’appartenenza di ciascuna opera a un suo universo parallelo internamente coerente.

I limiti della scultura di Tatiana Trouvé
Quello di Trouvé è un ecosistema estetico chiaro, che nasce dall’utilizzo di oggetti trovati, collezionati e riprodotti (soprattutto) in bronzo: ed è questa riproduzione, nell’opinione di chi scrive, uno dei maggiori nodi critici delle opere e della mostra. Una riproduzione che, oltre a rendere evidente un virtuosismo tecnico che straripa nell’iperrealismo, nulla aggiunge al processo di produzione di senso di questi oggetti. Anzi: li limita, li intrappola, li nasconde pur di fare scultura. E spinge il visitatore tra le braccia di un dubbio fondamentale su quale sia questa “strana vita delle cose” evocata dal titolo, un dubbio che non si risolve se non in senso negativo. Ma dove si ferma il bronzo, si ferma anche la pietra: sulle sedie disseminate in tutte le sale di Palazzo Grassi, cuscini e libri marmorei testimoniano da un lato l’interesse dell’artista per un certo illusionismo della materia, dall’altro un ancor meno necessaria manifestazione dei riferimenti bibliografici dell’artista (tra cui Calvino, Le Guin, Agamben, Thoreau, i cui nomi sono chiaramente incisi sulle coste dei volumi). Mostrare di più e dire di meno sarebbe stato più difficile, certo, ma probabilmente anche più efficace.

Tatiana Trouvé e l’installazione
I motivi di cui sopra sono gli stessi che rendono più efficaci altre opere di Trouvé in mostra: a partire dai molti disegni che dichiarano e abbracciano la loro dimensione virtuale, fino alla grande opera intitolata Storia Notturna, 30 giugno 2023 – una coppia di calchi in gesso delle impronte trovate dall’artista per le strade di Montreuil, in seguito ai disordini scaturiti nel giugno 2023, quando un agente di polizia ha sparato a un ragazzo diciassettenne di origine nordafricana. Una scultura che, oltre a rispondere perfettamente al bellissimo soffitto di Palazzo Grassi (cosa non facile), colpisce per la sua grande onestà, così come la grande installazione site specific che accoglie i visitatori al piano terra, Hors-sol: l’artista ha trasformato il pavimento marmoreo dell’atrio di Palazzo Grassi in una strada asfaltata, costellata di calchi di tombini provenienti da diverse città del mondo. Nel portare l’esterno all’interno, e nel costringerci a guardare in basso (al pavimento) per guardare in alto (ad un cielo stellato), l’opera è senza dubbio uno dei pochi pezzi veramente riusciti in mostra: qui Trouvé abbandona il fascinoso inganno che caratterizza altri suoi lavori e si fa carico delle potenti narrazioni che la riproduzione (e non la realtà) può veicolare, quando accetta la sua natura finzionale.

La mostra di Thomas Schütte a Punta della Dogana
Non meno muscolare, ma sicuramente più stimolante, la prima grande retrospettiva italiana di uno dei maggiori scultori tedeschi del secondo Novecento (Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 2005) è tutto quello che ci aspettiamo da una retrospettiva, nel bene e nel male. La ricerca di Thomas Schütte è esplorata nelle diverse sfaccettature scultoree e – per la prima volta con una presenza tanto ingente – grafiche. Proprio questa giustapposizione, spiegano i curatori Camille Morineau e Jean-Marie Gallais, è una delle chiavi di lettura del titolo della mostra, Genealogies: il noto corpus scultoreo di Schütte nasce in realtà dal disegno, una pratica decisamente più intima, diversificata e anche, se vogliamo, sfrenata, poiché non soggetta a limiti strutturali con cui la scultura deve necessariamente confrontarsi.

Le opere su carta di Thomas Schütte
“Tutto inizia con la carta”, rivela Schütte: una genealogia che si esprime innanzitutto nel rapporto tra i media, e che risulta chiara in gran parte delle tante (troppe) opere su carta presentate in mostra. In diversi casi, tuttavia, emerge fortemente un distacco, una libertà rispetto alla pratica scultorea, fino all’astrazione pura. Laddove il disegno si sofferma sulla figura umana – come la serie Criminali del 1992 o Blues Man del 2018 – si riconosce l’ascendenza rispetto alla scultura; in molti acquerelli e schizzi, invece, Schütte lascia prendere il sopravvento all’ironico e al fumettistico, allontanandosi dal peso materico che informa le sue grandi sculture e strizzando l’occhio a modalità più sagaci del fare artistico.
Le sculture monumentali di Thomas Schütte
Ancora prima di varcare la soglia di Punta della Dogana, il visitatore è chiamato a misurarsi con la monumentalità della grande statua Mutter Erde (“Madre Terra”). Si tratta solo della prima gigantessa di questa mostra, presto accompagnata da ancor più gargantuesche figure: dai tre Mann im Wind, giovani prigionieri nei loro basamenti, ai Fratelli (busti d’ispirazione romana che raccontano la corruzione italiana, accostati ai già citati Criminali), fino agli immensi Geister, spettri che dominano il cuore della mostra con i loro 4 metri di altezza e richiamano direttamente il loro processo di creazione, attraverso l’utilizzo di fili di cera malleabili che li rende mutevoli e spiraliformi. Nello stesso spazio (il cubo centrale di Punta della Dogana), trovano spazio i piccoli busti dei Wichte (“Canaglie”), a mo’ di spettatori del pantomimico scontro di box dei tre grandi Geister. Un’installazione di pregio, capace di instaurare un confronto felice nonostante la differenza dimensionale; senza dubbio il migliore brano di una mostra complessivamente ben allestita, seppur eccessivamente dispersiva (complice la grande varietà materica e stilistica dell’artista).

Il potere e il genere nelle opere di Thomas Schütte
Agli antipodi di Mutter Erde, nell’ambiente più vicino alla punta orientale di Dorsoduro, è invece imprigionato l’imponente Vater Staat (“Padre Stato”). È questa la prima e più evidente tensione tra i due pilastri che sorreggono concettualmente la mostra: il potere e il genere. Ma se le opere di Schütte si rivelano stabili fondamenta per il primo, non si può dire lo stesso per il secondo, che risulta più incerto, tanto da rischiare di cedere. Non c’è dubbio: le opere di Schütte affrontano la rappresentazione del potere e lo fanno abilmente, confrontandosi con la statuaria antica e soprattutto con il ruolo del monumento pubblico. Anche quando le dimensioni suggeriscono imponenza e impunità, le sue sculture evocano allo stesso tempo impotenza e responsabilità. Una riflessione che non si disperde nell’associazione potere-maschio, e nel ritratto della patria con fattezze maschili, ma che probabilmente si indebolisce nel momento in cui l’artista si interessa al genere opposto. Con uno sguardo retrospettivo, Schütte mette mano alla rappresentazione del corpo femminile nel corso della storia dell’arte, dominata dallo sguardo maschile. Tanto nella scultura quanto nel disegno e nella pittura, la donna compare spesso nelle sue versioni materna, couché, o smembrata come una Poupée di Hans Bellmer. Rappresentazioni che, nelle Aluminiumfrau esposte a fine mostra, sono caricate dello splendore appariscente del metallo levigato, trasformandosi in oggetti del desiderio ancora più palesi. Se è l’esasperazione dello stereotipo la strategia scelta da Schütte per veicolare le problematicità del rapporto di genere, non risulta sufficiente ad operare un effettivo ribaltamento: la restituzione della donna è ancora quella dello sguardo maschile, tanto nelle sue accezioni negative di oggetto sessuale, quanto in quelle “positive” di Madre Terra. Ma proprio l’associazione naïf del femminile al bene, alla natura, alla generazione positiva, rischia di tornare indietro come l’ennesimo appiattimento al ruolo, poiché – a differenza delle rappresentazioni che Schütte realizza del potere maschile – l’ambiguità (spazio terzo in grado di generare il superamento della polarità) esita a manifestarsi.
Alberto Villa
Libri consigliati:
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati