Joan Miró. Dagli atelier di Maiorca a Bologna
Palazzo Albergati, Bologna – fino al 17 settembre 2017. Selvaggio e poetico, sperimentatore e anticonformista, premio per la grafica alla Biennale di Venezia del 1954 e snobbato in patria fino alla caduta del regime franchista, Miró non smette di incantare i visitatori delle mostre che gli vengono dedicate.
Cercava un luogo immerso nella natura e nel silenzio per potersi dedicare esclusivamente all’arte, e lo trovò sull’isola di Maiorca, dove si trasferì dal 1956, a sessantatré anni. Joan Miró (Barcellona, 1893 – Palma di Maiorca, 1983), prima nell’atelier progettato dall’amico architetto Josep Llui Sert e poi anche nella grande dimora settecentesca di Son Boter, produsse una sterminata mole di dipinti, sculture, litografie, graffiti che dopo la sua morte sono andati a costituire le raccolte (circa 5mila pezzi) della Fundació Pilar i Joan Miró. Oggi 130 di quelle opere – tra cui un centinaio di oli – conservate sulla principale delle isole Baleari sono esposte a Bologna in una mostra che offre uno spaccato dei soli ultimi trent’anni di produzione dell’artista catalano, che fin dal 1927 si era proposto di “assassinare la pittura”, dando così inizio a un’avanguardia vicina ai Surrealisti e che poi risentì fortemente sia dell’espressionismo astratto americano sia dell’arte orientale, in particolare delle tecniche calligrafiche. Tuttavia Miró non si allontanò mai dalla sua passione per le forme artistiche primitive delle pitture rupestri e degli affreschi medievali della Catalogna, che considerava modelli di astrazione e colore.
NON SOLO PITTURA
Molte, nelle sale di Palazzo Albergati, le pitture di grandi dimensioni che Miró dipingeva stendendo il supporto a terra e usando spesso le mani o le gocciolature al posto dei pennelli, in un processo creativo che si avvicina all’energia e alla gestualità di Pollock e degli “irascibili”; ma nell’esposizione si possono scoprire anche alcuni esemplari di scultura in ceramica dalla “dirompente aggressività” (l’“avventura del fuoco” affascinava fortemente l’artista che per alcuni anni, dal 1955 al 1959, si dedicò prevalentemente alla realizzazione di ceramiche) e di libri d’arte dove il disegno si sposa con la parola, in particolare la poesia.
Con il passare degli anni forme e tavolozze si semplificano e le opere, più o meno note, lo testimoniano chiaramente: il segno nero diventa sempre più intenso e predominante, tanto da volgere in alcuni casi verso potenti tele monocrome in bianco e nero, mentre uccelli, donne con seni aguzzi, pesci, personaggi ibridi riempiono le superfici accompagnati da stelle e campiture colorate in purissimi blu, rossi, gialli o verdi.
A distanza di cinque anni dalle monografiche – sempre firmate Arthemisia – di Roma e Genova, quella di Bologna segna una nuova tappa nella scoperta di Joan Miró da parte dei visitatori italiani, che in autunno avranno la possibilità di vederla anche a Torino.
– Marta Santacatterina
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