Ėjzenštejn, il rivoluzionario dell’arte
Gallerie degli Uffizi, Firenze ‒ fino al 7 gennaio 2018. A cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, si celebra a Firenze il suo lato più poetico e visionario, che prese vita nei disegni e nel cinema di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, poliedrica figura di pensatore e cineasta, convinto ammiratore dell’arte italiana cui si ispirò anche per le sue pellicole. 72 disegni provenienti dall’Archivio Statale di Letteratura e Arte di Mosca, mai esposti prima in Italia, raccontano un aspetto poco noto di questo utopista dell’immagine.
In quell’ottobre di cento anni fa prendeva avvio un esperimento di “ingegneria antropologica” di cui il mondo non aveva conosciuto l’eguale: dalle teorie di Engels e Marx, Vladimir Lenin cercò di costruire una società del tutto nuova, basata su ideali di giustizia e uguaglianza, sociale ed economica. Idee che affascinarono anche un giovanissimo Sergej Michajlovič Ėjzenštejn (Riga, 1898 ‒ Mosca, 1948), il quale si arruolò nell’Armata Rossa durante la guerra civile che ebbe termine soltanto nel 1920. Questo addetto alle fortificazioni (come già lo erano stati Michelangelo e Benvenuto Cellini), nelle ore libere dal servizio studiava Leonardo e già immaginava quello che sarebbe divenuto il suo cinema, la sua “rivoluzione delle immagini”.
L’AFFLATO RINASCIMENTALE
Il cinema nasce dalla pittura e la grande impresa dei fratelli Lumière sta nell’essere riusciti a dare all’immagine quel movimento che si cercava da secoli; in maniera ancora più marcata, Ėjzenštejn fu il tramite fra la pittura e il cinema. Anche l’arte, a ben guardare, è una rivoluzione permanente, la sola che non sia costata sofferenza ai popoli, ed Ėjzenštejn vedeva nel cinema “il sole dell’avvenire” artistico, per la sua capacità di accostare suono, immagine, azione, pensiero, in una simultaneità non diversa da quella che infiammava l’immaginazione dei cubisti. Ma la prima fonte d’ispirazione furono i rinascimentali italiani, fra cui Leonardo da Vinci, Michelangelo e Paolo Uccello, le cui prospettive e la posizione delle figure gli suggerirono le inquadrature per molte grandiose scena di film fra cui Ivan il Terribile e Aleksandr Nevskij (in quest’ultimo è rintracciabile la Battaglia di San Romano).
QUEL SEGNO CINETICO
La selezione di disegni prende avvio dal alcune prove a penna, eseguite nel 1916: La coda, di gusto caricaturale, immortala una lunga teoria di persone, uomini, donne, giovani, anziani, soldati, civili, poveri, ricchi, che attendono il loro turno, per ritirare generi alimentari sottoposti a razionamento. Si tratta, come si può intuire, di satira contro lo Zar, contro la guerra che affama il popolo. Ma già s’intravede il “montaggio” cinematografico, il dinamismo di figure che, per quanto piccole, sembrano muoversi, e appartenere ad altrettanti fotogrammi. I disegni successivi datano dagli Anni Trenta, quando Ėjzenštejn è ormai un regista già affermato, e l’immagine su carta si svincola dal cinema in senso stretto, pur mantenendo uno spiccato dinamismo. Sorprendenti i suoi omaggi a Leonardo da Vinci, o alle varie figure mitologiche: un tratto che è puro contorno, una linea “danzante” che cesella corpi e volti dal plasticismo michelangiolesco e dalla grazia leonardesca. Un’ispirazione che si spiega con la determinazione di Ėjzenštejn a immortalare e raccontare l’uomo nuovo del Socialismo (in cui credeva sinceramente, lontano però dai fanatismi del Cremlino), così come Leonardo e Michelangelo raccontarono l’uomo rinascimentale. Al loro pari, Ėjzenštejn fu un pensatore, un seguace di “ciò che sarebbe venuto dopo”. Affascinanti e densi di umanità, i cicli Koshma (1941) e Mitologia greca (1944), realizzati anche in risposta all’ostracismo cui lo sottoponeva il regime; disegni in cui l’individuo è ritratto come l’eroe di un’antichità dolorosa, epica, sensuale, che guarda alle miniature indiane e con straordinaria modernità anticipa lo stile dei manga giapponesi.
SOTTO IL SOLE DEL MESSICO
Quel Messico fatto di puttane e cavalli, che tanto aveva affascinato Ambrose Gwinet Bierce, lasciò il segno anche sul regista russo, che vi soggiornò nel 1931, nel tentativo (non ultimato) di realizzare un documentario, Que viva Mexico!, che raccontasse la rivoluzione zapatista, ma anche e soprattutto la sua vitalità artistica. I disegni di questo periodo guardano con originalità al primitivismo messicano di Diego Rivera, cui affiancano suggestioni surrealiste; il mondo spirituale e pagano convive con una quotidianità fatta di religione, violenza e fatalismo. Ėjzenštejn introduce rapidi e radi tocchi di colore rosso e blu, con cui marcare particolari anatomici o accentuare la spigolosità della linea geometrica. Disegni che però risentono dell’estetica leonardesca di opere quali la Pietà e il Golgota. Nel suo periodo messicano, il regista cercò di fissare il sincretismo fra arte e rivoluzione che, con la morte di Lenin e l’avvio delle purghe staliniane, in Unione Sovietica si era già dissolto. Non casualmente, Stalin richiamò in patria Ėjzenštejn impedendogli di fatto di concludere il documentario; quel cinema impegnato, lontano dalla propaganda ma aperto alle grandi questioni sociali, al senso critico, profondamente antirealista, non poteva piacere al regime, e il regista visse nell’ombra i suoi ultimi anni, subendo persino la censura o il riadattamento delle sue pellicole. Probabilmente, Ėjzenštejn è troppo moderno anche per i nostri tempi, la sua idea di arte totale ‒ forse l’esempio più completo dell’utopia platonica ‒, non ha ancora trovato piena applicazione, nonostante le tante fasi rivoluzionarie che il Novecento ha attraversato. Ma forse ciò dipende dal fatto che l’idea di rivoluzione professata da Ėjzenštejn non ha niente a che fare con la violenza, ma nasce dall’interno di ogni individuo, chiamato ad aprirsi all’altro, alla conoscenza umanistica, alla sensibilità verso la bellezza. Rivoluzione civile, non politica, che ancora non trova diritto di cittadinanza.
‒ Niccolò Lucarelli
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