Il verismo poetico di Filippo Palizzi. A Roma
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma ‒ fino al 28 gennaio 2018. Cento opere fra dipinti e bozzetti, donati a fine Ottocento dall’artista allo Stato italiano e restaurati per l’occasione, ripercorrono le fasi della poetica pittorica di Filippo Palizzi, fra i maggiori esponenti della scuola verista italiana.
In quella prima metà dell’Ottocento l’Italia non aveva ancora una sua identità unitaria, ma a costruire un’iconografia nazionale di riferimento pensarono i pittori della scuola verista che immortalavano sulla tela la realtà sociale che andava dalla Sicilia alle Alpi. Attraverso l’applicazione di colori conformi alla natura e la rappresentazione di soggetti identificabili e appartenenti al quotidiano, analiticamente osservati, i veristi divennero i primi osservatori della nuova realtà del Paese.
DA NAPOLI A PARIGI
Poco dopo l’iscrizione all’Accademia di Belle Arti di Napoli, Filippo Palizzi (Vasto, 1818 ‒Napoli, 1899) l’abbandonò nel 1837 per contrasti ideologici con Michele Smargiassi, suo docente di paesaggio e convinto reazionario, che poco poteva andare a genio al carbonaro Palizzi. Il quale decise di frequentare lo studio di Giuseppe Bonolis, anch’egli carbonaro, e che lo iniziò allo studio del vero. Pittore essenzialmente d’atelier, Palizzi era solito dipingere i suoi quadri rifacendosi alle fotografie dei soggetti scelti, ma questo non inficia la poesia che seppe trasporre sulla tela, facendosi cantore di un mondo sereno e ridente, ma non retorico. Palizzi infatti riesce a infondere una piacevole vitalità ai suoi quadri, che divengono veri e propri scorci quotidiani.
Un soggiorno a Parigi nel 1855 gli permise di conoscere da vicino l’opera di Camille Corot e Gustave Courbet, quest’ultimo presente all’Esposizione Universale. L’influenza dei colleghi francesi fu notevole su Palizzi come sugli altri veristi italiani; in particolare, il vastese superò la fase del bozzetto narrativo per avvicinarsi a una pittura densa di intima poesia, e intrisa di silenzio, di sole e di rugiada, avvalendosi di una tavolozza dalle mille tonalità di verde, ocra e marrone, proprio sulla scorta di Corot. Da quel momento, fu uno dei più prolifici esponenti di questa scuola pittorica, e le sue tele costituiscono ancora oggi importanti documenti per conoscere l’Italia contadina dell’Ottocento, che dà l’impressione di una “grande proletaria” (per citare Pascoli), ma certamente dignitosa e operosa, e che appena dopo l’Unità ancora non aveva conosciuto il clima delle tensioni internazionali che caratterizzavano le aggressive politiche dei grandi Imperi. Nell’immaginario dei viaggiatori stranieri, l’Italia era ancora il “Bel Paese”.
LE SUGGESTIONI DEL MONDO NATURALE
Sulla scorta di Anton van Pitloo, olandese attivo a Napoli a metà Ottocento, nel quale era viva la lezione della pittura animalista nordeuropea del Seicento, Palizzi rivolse la sua attenzione al mondo degli animali, che nell’Italia rurale dell’epoca erano presenze abituali con cui condividere le fatiche dei campi. Vacche, vitelli, levrieri da caccia o più umili “cani da pagliaio” sono i protagonisti di pitture intense, dove la loro presenza non è soltanto fisica, ma anche affettiva, solidale, e in questa lettura emerge, per la prima volta nella pittura italiana, l’accurata resa psicologica degli animali, in particolare dei cani; desta tenerezza lo sguardo del Lupetto bianco (1875), che sembra pronto a rispondere al richiamo del padrone.
Palizzi si cimentò anche con la pittura di paesaggio, spesso animato da figure di bambini o adolescenti, una soluzione che contribuisce a creare l’impressione dell’idillio campestre, che sboccia in mezzo a una natura rigogliosa, incontaminata, punteggiata qua e là di ruscelli, laghetti, sorgenti dalle acque cristalline, immagine di un mondo primigenio e d’intatta purezza che faceva da cornice alla vita quotidiana.
LO SGUARDO ANTROPOLOGICO E LA PITTURA STORICA
Sulla scorta della collaborazione con Francesco De Bourcard al suo Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti (per il quale aveva realizzato numerose illustrazioni), Palizzi si misurò con la realtà dei costumi popolari napoletani. Lo fece anche sulla tela, soffermandosi sui contadini che ritrasse mentre si occupano delle incombenze quotidiane, o anche, in un raro istante di riposo, persi in una contemplazione sognante, come Filomena, contadina che contempla in vetta a un ciglio (1864); un’opera intensa, che nobilita la figura della giovane elevandola alla stregua di una statua classica, lasciandola però “ancorata alla terra” nella povertà delle vesti e in quello sguardo socchiuso che sembra celare una qualche preoccupazione. Al pari delle pagine di Capuana, le pitture di Palizzi, e in generale della scuola verista, costituiscono un ideale romanzo per immagini che abbraccia la realtà paesaggistica e sociale italiana. Per un breve periodo, a ridosso dell’Unità d’Italia, Palizzi frequentò anche la pittura storica. Se già nel 1848 aveva attentamente seguito la sommossa popolare in difesa della Costituzione concessa da Ferdinando II, preludio alla caduta dei Borbone, da artista sostenne la causa patriottica dipingendo, fra gli altri, quell’Ettore Fieramosca cantato in prosa anche da Massimo D’Azeglio, figura di spicco del Risorgimento. Consapevole dell’importanza delle circostanze, anche Palizzi, nei limiti del possibile, volle dare un suo contributo alla causa nazionale, alla quale sentiva di dover partecipare. E pur non combattendo sul campo (come molti dei giovani Macchiaioli), ebbe comunque modo di far sentire la sua voce.
‒ Niccolò Lucarelli
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