L’Astrattismo russo, fra utopia e dittatura. A Gorizia
Nel centenario della Rivoluzione d’Ottobre, una mostra al Palazzo Attems di Gorizia racconta quella “rivoluzione parallela” che riguardò le arti figurative russe. Cento opere, in gran parte inedite per l’Italia, ricostruiscono una stagione creativa che va dal 1898 al 1922, dai “Ballets Russes” di Djagilev al Costruttivismo di Ekster e Rodčenko. Un viaggio nell’arte e nella storia di un Paese.
In quell’ultimo scorcio di XIX secolo, Nicola II era ancora ben saldo sul suo trono di Zar, e le luci della Belle Époque brillavano su Mosca e San Pietroburgo. Fra le crepe di una società agitata dal vento delle idee marxiste che premevano per l’elevazione sociale delle masse dei lavoratori, si faceva largo anche un dibattito interno al mondo dell’arte: la corrente tradizionalista si rifaceva a Lev Tolstoj, sostenitore di un’arte impegnata e strettamente legata alla tradizione russa. Da parte sua, Sergej Pavlovič Djagilev sosteneva la necessità di un’arte disimpegnata e aperta all’Europa. Che a parlare d’arte fossero due persone che non erano artisti, lo si spiega con il fatto che tutta la cultura russa è fortemente impregnata del pensiero critico-letterario, che influenza quindi anche l’arte figurativa. A rompere con la tradizione dell’autore di Guerra e pace, fu appunto Djagilev, che nel 1898 fondò la rivista Il mondo dell’arte, attraverso cui diffuse le correnti dell’Impressionismo e dell’Art Nouveau.
L’APERTURA ALL’EUROPA
Sotto la spinta di Djagilev nasce in Russia un’arte moderna, che guarda alla società, al teatro, al mondo del design, esattamente come da oltre un decennio accade a Parigi o Londra. Il carattere mondano di questa nuova pittura è evidente nel distacco dal naturalismo accademico a favore di una ritrattistica psicologica, che lascia intuire quello spleen di gran moda già introdotto a Parigi da autori come Maupassant o Proust. Perché, come sosteneva Andrej Belyj, in arte “non è l’immagine a dover uscire allo scoperto, quanto la veridicità di emozioni e stati d’animo”. Il respiro della pittura si fa più vasto, e la lezione degli impressionisti porta inconsueta luminosità alle sussiegose pitture di gusto borghese. Parallelamente, la vecchia Russia contadina lascia spazio alle sperimentazioni di sapore orientale, ravvisabili nei bozzetti per le scene e i costumi dei Ballets Russes fondati ancora da Djagilev, eclettico critico-impresario con il debole per i colori accesi. Michail Larionov, futuro esponente del Raggismo, si forma con queste figure teatrali dalle fogge esotiche, o paesaggi lussureggianti dalla luminosa tavolozza.
DA CÉZANNE AL CUBOFUTURISMO
Il clima artistico russo si vivacizzò notevolmente, coinvolgendo numerose città da Kiev a Vladivostok, da Saratov a Char’kov, e assorbendo le esperienze francesi più moderne. Se Viktor Borisov-Musatov guardava ai Nabis, Vasilij Vasil’evič Roždestvenskij aveva in Cézanne un punto di riferimento, mentre Michail Larionov e Natal’ja Gončarova erano interessati al primitivismo, sulla scorta degli studi di Picasso e Modigliani. Per la prima volta nella storia, l’arte russa è a stretto contatto con quella europea, e al seguito delle Avanguardie si distacca dal figurativo, provocando un vero e proprio shock nel pubblico, che per la prima volta dovette confrontarsi con feticci primitivi, pennellate grossolane, colori sgargianti, la mancanza di un tema vero e proprio. Istintivamente, anche gli artisti gettavano le basi per la rottura con la società aristocratica e borghese legata allo Zar, e quattro di essi, Burljuk, Kručënych, Majakovskij, Chlebnikov, firmarono nel dicembre del 1912 il manifesto Schiaffo al gusto corrente, in cui s’inveisce contro la tradizione, un po’ come Marinetti e colleghi avevano fatto con il Manifesto Futurista.
Questa affinità concettuale in chiave antiborghese si realizzò pienamente l’anno successivo, con l’affermazione del Cubofuturismo, una forma espressiva che accostava poesia e pittura per realizzare i primi esempi di puro astrattismo russo, con il definitivo superamento del figurativo e il distacco dell’arte da qualsiasi tematica impegnata, per farsi soltanto portavoce di questioni legate alla forma e al colore. I collage di Ol’ga Rozanova o Nadezda Udal’cova rimandano al puro Cubismo, ma per orgoglio nazionale, in polemica con le correnti occidentali, Larionov fondò il Raggismo, risposta russa alle avanguardie europee, mentre Kazimir Malevič apriva la strada all’astrattismo geometrico con il suo Suprematismo, dove la figura geometrica diveniva protagonista assoluta della tela, un po’ sulla scia degli olandesi di De Stijl.
Il 1917 E LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE
Le questioni sociali irrisolte, aggravate dalle difficoltà della Grande Guerra, portarono alla caduta dello Zar e all’instaurazione del regime socialista, il quale dovette però affrontare cinque anni di guerra civile prima della definitiva affermazione. Il mondo dell’arte l’accolse come la definitiva e auspicata rottura con il passato, sociale, storico e artistico, e aveva attivamente collaborato alla sua propaganda. Le vignette satiriche di Majakovskij contro lo Zar, i manifesti di Kuprejanov raccontano l’iniziale percorso parallelo fra arte e Rivoluzione. Lo stesso Majakovskij proclamò il suo ottimismo nella poesia Il mio maggio (1922): “Al primo fra tutti i maggi // andiamo incontro, compagni, // con la voce affratellata nel canto.// È mio il mondo con le sue primavere.//Sciogliti in sole, neve!//Io sono operaio,//è mio questo maggio!// Io sono contadino,//questo maggio è mio!”.
LA FINE DELL’UTOPIA
Nel 1922 ebbe termine la guerra civile che aveva visto combattersi le fazioni massimalista e moderata del Partito Comunista russo. Con la vittoria della prima, s’instaurò un regime fortemente centralizzato che di lì a poco Stalin avrebbe trasformato in dittatura personale. In questo contesto, l’arte divenne un semplice strumento di propaganda politica e nacque il Costruttivismo, corrente artistica di Stato per la celebrazione degli ideali socialisti: Aleksandr Rodčenko e Varvara Stepanova furono fra gli esponenti più autorevoli di questo astrattismo antiborghese, metafora della continua marcia verso l’uguaglianza e il progresso tecnico-scientifico, cui si affiancavano le retoriche stampe e miniature celebrative. Di fatto, l’avventura dell’arte russa si chiude nel 1922: chi può, come Kandinskij, lascia il Paese, altri meno fortunati, come Majakovskij, saranno costretti al suicidio a causa dell’ostilità di Stalin. Chi sopravvisse, lo fece adattandosi a servire la causa, senza più contatti con l’arte europea e contribuendo suo malgrado al grigiore quotidiano di uno Stato-lager.
‒ Niccolò Lucarelli
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