Man Ray il trasformista. A Vienna

Non solo fotografo, ma artista fra i più produttivi e versatili del Novecento. Man Ray è al centro della grande retrospettiva allestita al Kunstforum di Vienna.

Non esiste alcun mezzo artistico che non sia stato sperimentato da Man Ray: pittura, fotografia, disegno, assemblaggio, aerografia, film, libri e oggetti artistici, che hanno plasmato la natura poliedrica, poetica e ironica dell’artista. La mostra viennese sottolinea la natura transmediale della produzione di Man Ray esponendo più di duecento opere provenienti da istituzioni internazionali quali il Museum of Modern Art di New York, il Centre Pompidou di Parigi e la Tate di Londra.
La rassegna alza il sipario sui primi lavori di Man Ray, poco conosciuti in Europa, che comprendono studi tecnico-astratti e i dipinti fortemente influenzati dal Fauvismo e dal Cubismo, prodotti durante la sua permanenza nella colonia di artisti a Ridgefield. A New York frequenta la galleria 291 del fotografo Alfred Stieglitz, scoprendo le possibilità offerte dalla fotografia. Inizia a scattare per poter riprodurre i suoi dipinti e disegni. Conosce Marcel Duchamp, fuggito dalla Francia in tempo di guerra, che diviene per lui un modello. Insieme creano la versione americana del Dadaismo, che però non ha la stessa fortuna del movimento europeo. La sua collaborazione con Duchamp ha generato opere che mettono in discussione concetti come originale e riproduzione. Duchamp sottolinea che Man Ray trattava la fotocamera al pari di un pennello, un mero strumento al servizio della sua mente.

GLI ANNI DI PARIGI

Agli inizi degli Anni Venti, Man Ray si trasferisce a Parigi, dove ritrova Duchamp e i dadaisti, e i surrealisti lo accolgono entusiasticamente. Tende però a mantenere sempre un certo distacco da questi movimenti e diventa presto un fotografo di successo. Picasso, Dora Maar, Virginia Woolf, Coco Chanel sono solo alcuni dei personaggi che cattura con il suo obiettivo.  Accetta anche commissioni commerciali e di moda, lavorando per riviste come Harper’s Bazaar e Vogue. I suoi esperimenti nella camera oscura lo portano allo sviluppo delle rayografie ‒ posizionando gli oggetti direttamente su un foglio di carta fotosensibilizzata ed esponendola alla luce ‒ e all’invenzione accidentale, insieme all’artista e compagna Lee Miller, della solarizzazione, dove i toni scuri e medi rimangono positivi mentre le aree chiare diventano scure, mantenendo solo un contorno luminoso, in principio una superficie chiara. La usava spesso per “sfuggire alla banalità” e soprattutto per enfatizzare i contorni dei nudi femminili.

Man Ray, Indestructible Object, 1923_65. Sammlung Marion Meyer, Paris. © Marc Domage, courtesy Galerie Eva Meyer, Paris. © MAN RAY TRUST_Bildrecht, Wien, 2017-18

Man Ray, Indestructible Object, 1923_65. Sammlung Marion Meyer, Paris. © Marc Domage, courtesy Galerie Eva Meyer, Paris. © MAN RAY TRUST_Bildrecht, Wien, 2017-18

L’UNIVERSO ESTETICO DI MAN RAY

La sala principale del Kunstforum è consacrata all’universo artistico di Man Ray, ricco di oggetti, fotografie, dipinti e disegni che riflettono la sua capacità di trasformare oggetti, quali utensili domestici o strumenti musicali, in elementi misteriosi, trasposti anche in fotografia e pittura. Come nel caso dell’Indestructible Object, un metronomo sul quale applica la fotografia dell’occhio della compagna. L’artista utilizzava il metronomo per battere il tempo delle pennellate e applicò l’occhio per dar vita all’illusione di essere guardato mentre dipingeva. Man Ray dipinge ciò che non può essere fotografato e fotografa ciò che non desidera dipingere. Altri dipinti esposti nella sala evidenziano l’influsso di artisti contemporanei quali Giorgio de Chirico; Man Ray sembra non riuscire a creare uno stile proprio in pittura. Realizza anche alcuni film: prodotti negli Anni Venti, sono sperimentazioni legate alle Avanguardie dada e surrealiste.

LA GUERRA, L’ESILIO E LA CULTURA POP

Alla fine degli Anni Trenta, Man Ray torna alla pittura e rappresenta la minaccia del nazismo in dipinti profetici tra cui La Fortune, dove un biliardo decide il futuro dell’Europa. Con l’avvento del nazismo è costretto a trasferirsi negli Stati Uniti, dove trascorre diversi anni in California per poi tornare nell’amata Parigi, e qui passerà gli ultimi anni della sua vita.
La mostra riunisce anche alcuni dei suoi ultimi esperimenti: Les Voies lactées e una serie di opere della cultura pop ispirate dall’artista quali il videoclip Barrel of a Gun dei Depeche Mode o la pubblicità di un profumo di Jean Paul Gaultier. Man Ray viene tratteggiato come un artista che non ha mai sentito di appartenere a uno stile o a un gruppo e che di volta in volta si è reinventato in media estremamente diversi.

Man Ray, L’Énigme d’Isidore Ducasse, 1920_1971. Sammlung Marion Meyer, Paris. © Xavier Lahache, courtesy Galerie Eva Meyer, Paris. © MAN RAY TRUST_Bildrecht, Wien, 2017-18

Man Ray, L’Énigme d’Isidore Ducasse, 1920_1971. Sammlung Marion Meyer, Paris. © Xavier Lahache, courtesy Galerie Eva Meyer, Paris. © MAN RAY TRUST_Bildrecht, Wien, 2017-18

L’INTERVISTA DI FRANCO VEREMONDI ALLA CURATRICE E ALLA DIRETTRICE

Man Ray è un artista a cui niente fa paura!”. Introduce così la conversazione Ingried Brugger, direttrice del Kunstforum di Vienna. E spiega: “Con le sue attività, fa saltare i confini tra alto e basso: è fotografo di moda, crea cover per i dischi dei Rolling Stones e tanto altro. Ha un’attitudine transmediale che un Picasso non si sarebbe mai permesso, e questo è un aspetto molto moderno”. Entra subito nel vivo la chiacchierata con le due principali artefici della mostra, la direttrice del museo per l’appunto, e la curatrice Lisa Ortner-Kreil, nel cercare di cogliere l’esprit di un personaggio assolutamente decisivo per le sorti dell’arte contemporanea.

Ci state mostrando un Man Ray non solo fotografo, ma artista dai molteplici linguaggi visivi e sperimentali, quindi pittore, scultore, filmmaker. Poiché ha vissuto intensamente tra Dadaismo, Surrealismo e oltre, quanto è distante la sua attività artistica dalla propria vita quotidiana?
Ingried Brugger: A Parigi, dadaisti e surrealisti conducono un’esistenza che si può ben definire uno stile di vita, un qualcosa di artificiale. È un’epoca particolare, e loro frequentano circoli caratterizzati da una vitalità oggi impensabile. Per Man Ray, vita e arte vanno di pari passo: tutte le sue amicizie, amori e frequentazioni vengono assorbiti da questo suo atteggiamento.

Stai descrivendo un uomo dal temperamento mondano, abilissimo nel cucirsi addosso l’abito dell’artista moderno, disinibito, spregiudicato, e dotato pure di una verve paradossale. Irresistibile la battuta con cui osa dire che con una macchina fotografica Leonardo da Vinci e Albrecht Dürer si sarebbero risparmiati molto tempo e fatica. Come puoi commentarla?
I. B.: È un’affermazione da intendere sarcasticamente, espressa in un periodo in cui lui è pienamente convinto dell’utilizzo del mezzo fotografico. Ritiene di aver creato una forma artisticamente autonoma, un nuovo medium, quindi la sostiene con molta convinzione. Ma non sarà sempre così: col tempo non vorrà più saperne della fotografia, al punto che avrà interesse solo a creare oggetti e dipinti.
Lisa Ortner-Kreil: Quello che si legge in questa frase su Leonardo e Dürer è che lui non ha paura di mettersi alla pari dei grandi della storia dell’arte.
I. B.: C’è da dire inoltre che questo è un linguaggio d’avanguardia. Pertanto le arti non vengono più giudicate secondo una classificazione preordinata; qualsiasi medium si equivale, ciò che conta è la creazione artistica in sé.

Man Ray, The Veil, 1930. The Museum of Modern Art, New York. © 2017. Digital image, The Museum of Modern Art, New York_Scala, Florenz. © MAN RAY TRUST_Bildrecht, Wien, 2017-18

Man Ray, The Veil, 1930. The Museum of Modern Art, New York. © 2017. Digital image, The Museum of Modern Art, New York_Scala, Florenz. © MAN RAY TRUST_Bildrecht, Wien, 2017-18

Lisa, dalla mole di documenti e testimonianze che ti è passata tra le mani nel curare questa mostra, puoi stabilire quali esperienze abbiano influenzato gli anni giovanili di Man Ray in una America del primissimo Novecento, artisticamente conformista, per dargli il coraggio di avventurarsi con tanta convinzione nel labirinto delle arti visive?
L. O-K.: Penso che tra le sue esperienze giovanili sia stato importante muoversi tra due continenti, tra due metropoli come New York e Parigi, insieme al padre che era sarto e che in qualche maniera lo aveva influenzato. Al Centre Pompidou, per esempio, è conservata una sua tapisserie in patchwork realizzata da ragazzo. Da giovanissimo si è esercitato nel disegno geometrico, come si può vedere nella mostra, e a scuola era l’artista della classe; ha anche ideato il logo per il giornalino scolastico. Ma poi, le immagini di Alfred Stieglitz gli hanno fatto capire che la stella nascente della rappresentazione visiva era la fotografia.

Decisivo per l’artista americano, non ancora 23enne, potrebbe essere stato l’impatto con l’eclatante mostra di artisti europei allestita all’Armory Show di New York nel 1913. Sicuramente quella era un’occasione da prendere al volo per un giovane americano in cerca di stimoli creativi, potendo scoprire, per esempio, un Duchamp che espone un’opera rivoluzionaria come Nu descendant un escalier n.2. Come e quando si è instaurata l’amicizia e la collaborazione tra Man Ray e Duchamp?
L. O-K.: Storicamente, quello è il periodo in cui Man Ray si ritira nella colonia artistica di Ridgefield, ma non ci sono molte fonti riguardanti la sua presenza all’Armory Show del 1913. Sembra invece che l’incontro e l’amicizia tra i due risalga al 1915, proprio nella colonia di Ridgefield, dove un mercante d’arte porta Duchamp in visita. Si racconta che i due si siano sfidati a tennis, ma senza rete; interessante il fatto che sia stato il gioco, soprattutto poi quello degli scacchi, il motore della loro relazione.

Dipingo quello che non può essere fotografato”, sottolinea Man Ray. Ne consegue che fotografa quello che non può essere dipinto. Già, però le sue invenzioni in campo fotografico nascono per caso, o per errore. Come nel ritratto della Marchesa Casati o in quel casuale incidente che dà luogo alla rayographie. Errori che lui accetta riuscendo a imporli come capolavori. È possibile che l’entusiasmo di Man Ray stia nell’aver trovato la non riproducibilità seriale applicata alla fotografia, la quale è al contrario il mezzo tipico della riproducibilità?
I. B.: In effetti, quello che importa ai surrealisti è la singolarità dell’oggetto e la sua non riproducibilità. Man Ray fa apparentemente il contrario: utilizza la fotografia, però ne ribalta la funzione scoprendone e utilizzando la non riproducibilità.
L. O-K.: Addirittura inventa oggetti solo per fotografarli. Per assurdo, nella realizzazione dei rayogrammi che impediscono la serialità, cosa che accade anche nel processo singolare e imprevedibile della solarizzazione, lui ha la possibilità di trasformare quelle immagini in multipli solo (ri-)fotografandole.

Man Ray, Ohne Titel (Rayografie), 1923, Silbergelatineabzug Museum Ludwig, Köln © Rheinisches Bildarchiv, Köln © MAN RAY TRUST_Bildrecht, Wien, 2017-18

Man Ray, Ohne Titel (Rayografie), 1923, Silbergelatineabzug Museum Ludwig, Köln © Rheinisches Bildarchiv, Köln © MAN RAY TRUST_Bildrecht, Wien, 2017-18

Nei suoi cortometraggi si nota che non di rado l’artista ripropone elementi formali e concetti espressi altrove. In uno dei film mi ha colpito una surreale partita a dadi tra individui la cui identità fisionomica è resa uniforme da una velatura sui volti: un annullamento della soggettività. Anche qui, come in quei processi fotografici il cui esito è determinato da imprevisti e accidenti, sembra che per l’artista sia il caso, l’azzardo – il lancio dei dadi – a decidere il destino degli uomini. È accettabile questa interpretazione?
L. O-K.: Assolutamente sì. Il film a cui ti riferisci è Le Mystère du Château du Dé. In esso due viaggiatori arrivano in una villa nel sud della Francia, giocheranno a dadi e il perdente sarà trasformato in pietra e resterà là per sempre. Questa, in breve, è la storia, quindi in Man Ray c’è la costante dell’azzardo.

Ingried, quali sono i progetti futuri del Kustforum?
I. B.: Stiamo preparando una mostra su Pierre Bonnard insieme alla Tate Modern di Londra, ma la prossima sarà sul Giapponismo.

Puoi tracciare un profilo dell’istituzione da te diretta?
I. B.: Il Kunstforum è un’associazione artistica privata il cui sponsor di maggioranza è Bank Austria, non il solo, quindi. Però, nel nostro ambito, ci muoviamo con agilità perché non abbiamo condizionamenti dall’alto, abbiamo invece collaborazioni con importanti strutture, con la Tate Modern, ma anche con la Fondazione Beyeler e con altre, e di regola realizziamo tre grandi mostre ogni anno, secondo un programma molto ponderato. Non vogliamo fare la venticinquemillesima mostra su Picasso. Klaus [Schröder, direttore del Museo Albertina di Vienna, N. d. R.] fa Picasso e io Braque. Certamente Picasso richiama più gente, ma anche quello che facciamo noi piace a un pubblico internazionale e pure ai critici. Sarà forse per questo che siamo considerati la maggiore associazione artistica privata a livello mondiale?

Giorgia Losio e Franco Veremondi

Vienna // fino al 24 giugno 2018
Man Ray
a cura di Lisa Ortner-Kreil
KUNSTFORUM WIEN
Freyung 8
www.kunstforumwien.at

Versione integrale del focus pubblicato su Grandi Mostre #9

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Giorgia Losio

Giorgia Losio

Giorgia Losio, nata a Milano, è storica dell’arte e appassionata di design. Ha studiato storia dell’arte presso l’Università degli Studi di Milano e si è specializzata in storia e critica dell’arte contemporanea all’Université Sorbonne Paris-IV e in museologia e museografia…

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