Quando Josef Albers era un turista in Messico
Peggy Guggenheim Collection, Venezia – fino al 3 settembre 2018. Josef Albers è il pittore degli “Omaggi al quadrato”. Ma in questa mostra che arriva da New York si racconta della sua passione per il Messico precolombiano. Con un paio di scoperte che permettono di guardare diversamente i suoi dipinti.
La leggendaria risposta che Pablo Picasso fornì a chi gli domandava quanto l’arte africana l’avesse influenzato fu, com’è noto: “L’art nègre? Je connais pas”. Boutade o negazionismo le interpretazioni che vanno per la maggiore. Tuttavia la questione è più complessa, e va compresa nel quadro di una stratificazione inestricabile di stimoli che nutrono inevitabilmente ognuno di noi, e dunque pure gli artisti. Non è quindi questione da affrontare con polemica, nella maggior parte dei casi, piuttosto con la curiosità del geologo che, per restare in metafora, si appassiona alle suddette stratificazioni e alla loro formazione, evoluzione, interdipendenza.
ALBERS COLONIALISTA?
La mostra di Josef Albers (Bottrop, 1888 – New Haven, 1976) alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia ha esattamente questa funzione e questa ambizione: mostrare come l’artista-del-quadrato si sia nutrito per anni della cultura visiva precolombiana. Una ruberia colonialista che ha fatto transitare forme e simboli dai siti archeologici messicani ai musei d’Occidente? È il pensiero più semplice e diretto ma anche più sbagliato; e non tanto perché si può discutere delle posizioni politiche ed etiche dei coniugi Albers, piuttosto perché semplifica colpevolmente un processo che fa parte del funzionamento psichico e fisiologico del cervello e della mente umani.
Detto altrimenti: qui non c’è nulla dell’appropriazionismo o del citazionismo più meccanico e lineare – e men che meno di quello più astuto. Al contrario, c’è una fascinazione profonda e quasi ancestrale per forme pure che confermano e strutturano le ricerche di Albers, quelle che si riversano nei suoi scritti e nelle sue pitture.
LA MOSTRA E I VIAGGI
Cosa troviamo, dunque, in mostra? Troviamo un’equilibrata miscela di fotografie e dipinti, un racconto pressoché inedito dei numerosi viaggi alla scoperta della civiltà azteca accanto a opere celeberrime che, per l’appunto, si nutrono di quegli spunti visivi e di quelle eccedenze visuali scolpite migliaia di anni prima nella pietra.
I viaggi in Messico iniziano poco dopo la fuga degli Albers dalla Germania nazista: il primo risale al 1935, e da allora saranno moltissimi, con qualche puntata in altri Paesi del centro e sud America, ma con una netta prevalenza di soggiorni nello Stato confinante con gli USA; al punto che Josef insegna anche per un breve periodo alla Universidad nacional autónoma de México. Un entusiasmo che con chiara evidenza traspare nelle lettere dell’epoca, in cui si classifica ad esempio Monte Albán “tra le esperienze più importanti della mia vita”.
IL VALORE DELLE FOTOGRAFIE
I richiami, le eco tra fotografie e dipinti e disegni (talora su carta millimetrata), sono straordinariamente interessanti, anche grazie a un allestimento ben cadenzato e mai stucchevole e didascalico.
Attenzione però: l’alta soglia di concentrazione nel cogliere questi giochi di influenze potrebbe distrarre da un elemento che merita altrettanto interesse. Perché molte delle fotografie (e dei fotocollage, e delle composizioni montate su cartoncino) scattate da Josef Albers sono tutt’altro che scevre delle lezioni imparate dai colleghi del Bauhaus – László Moholy-Nagy, ad esempio – e hanno un gradiente di artisticità in sé che non va sottovalutato.
Un aspetto, quest’ultimo, ben argomentato nel saggio di Lauren Hinkson in catalogo, strumento che completa alla perfezione questa mostra esemplare nel saper stimolare gli interessi dei pubblici più vari.
– Marco Enrico Giacomelli
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