Il coraggio della linea. Osvaldo Licini a Venezia
Sessant’anni fa la Biennale di Venezia conferiva il Gran Premio per la pittura a Osvaldo Licini e oggi la sede lagunare della Collezione Peggy Guggenheim rende omaggio all’artista marchigiano con una retrospettiva rigorosa. Capace di mettere finalmente in evidenza l’eccezionale apporto di Licini al dibattito pittorico del secolo scorso.
Amato dai collezionisti, poco noto al grande pubblico e solo trasversalmente menzionato dalla storiografia artistica recente. Sembra essere questo il destino che accompagna la memoria di Osvaldo Licini (Monte Vidon Corrado, 1894-1958). La mostra autunnale della Collezione Peggy Guggenheim, curata da Luca Massimo Barbero con il consueto rigore filologico e l’immancabile equilibrio visivo degli allestimenti, regala finalmente all’artista marchigiano la meritata visibilità, sottraendolo a un limbo vischioso, dove scivolano, spesso in maniera irrimediabile, personalità “difficili” come la sua. La complessità che ha relegato il pittore ai margini della storia creativa recente è da ascrivere non soltanto all’indole riservata di quest’ultimo, ma anche, e soprattutto, all’impossibilità di inquadrarne la poetica in rassicuranti, e definitive, categorie. La retrospettiva veneziana abbandona un simile fardello concettuale, puntando al sodo e ripercorrendo l’esistenza di Licini dagli esordi alla maturità, senza retrocedere davanti alle improvvise sterzate dell’artista, ma riconoscendole come il punto di forza del suo linguaggio. Oltre la banale etichetta di “ribelle” e “outsider”, a emergere è la coerenza di Licini, autore di una ricerca che, tenendo la linea come bussola, si muove dalla figurazione agli esperimenti astratti, senza mai perdere di vista la concretezza del segno e l’ironia di un approccio radicato nella tradizione eppure capace di reggersi sulle proprie gambe.
UN ATTO DI VOLONTÀ
L’itinerario cronologico proposto dalla rassegna veneziana trova negli anni della formazione bolognese e nell’indovinato confronto con l’amico Giorgio Morandi l’avvio di un’indagine attorno alla linea, netta e tagliente nei Soldati italiani del 1917 ‒ intrisi di reminiscenze futuriste ‒, più morbida e arrotondata nelle Ballerine e nei Nudi ‒ eco, questi ultimi, della vicinanza ad Amedeo Modigliani, conosciuto durante i soggiorni parigini a cavallo fra gli Anni Dieci e Venti ‒ spessa e in dialogo serrato con il colore nei paesaggi ‒ paralleli a quelli di Morandi e Carlo Carrà, ma già autonomi nei punti di fuga e negli scorci prospettici. L’analisi della figura umana e del mondo naturale è il necessario trampolino di lancio verso il superamento della pittura dal vero e l’accesso, in netto anticipo sui tempi, a un linguaggio astratto che diventerà il fil rouge degli anni a venire, intrecciato a elementi figurativi che oggi la critica riconosce come simboli dell’arte di Licini. Nel testo di presentazione che accompagnava la sua prima personale italiana, nel 1935, alla Galleria Il Milione di Milano, il pittore scriveva: “Fino a quattro anni fa ho fatto tutto quello che ho potuto per fare della buona pittura dipingendo dal vero. Poi ho cominciato a dubitare. Dubitare non è una debolezza, ma è un lavoro di forza, come forgiare, ha detto Cartesio. E mi sono convinto che facevo, come fanno ancora tanti, della pittura in ritardo, superatissima, fuori del tempo e contraria alla sua vera natura che non è: imitazione. La pittura è l’arte dei colori e delle forme, liberamente concepite, ed è anche un atto di volontà e di creazione ed è, contrariamente a quello che è l’architettura, un’arte irrazionale, con predominio di fantasia e immaginazione, cioè poesia”.
AMALASSUNTE E ANGELI RIBELLI
Ecco allora l’Obelisco del 1932, il Drago del 1933, il Castello in aria del 1933-36, composizioni nelle quali linea e colore si dividono la tela inscenando giochi di forza e catene di rimandi alla concretezza di gesti come Assaggiare (1934-36) e Addentare (1935-36), onomatopee visive sul limite tra figurativo e astratto.
La linea si conferma punto di ancoraggio al reale anche nelle Archipitture, poste in una efficace dialettica con gli interventi di Fausto Melotti, e in lavori quali Bocca (1934), Portafortuna ‒ Merda (1939-41) e Personaggio su fondo giallo (1944), dove numeri e lettere si mescolano alle campiture cromatiche dando origine a rebus volutamente mancanti, nel solco di una sferzante ironia che non abbandona mai il campo, ma si stempera nelle linee delle Amalassunte e degli Angeli ribelli. Richiami alla religione e a un romanticismo di stampo leopardiano fanno capolino in particolare nelle Amalassunte, sorta di crasi fra lune, regine ostrogote e Assunte capovolte in male-assunte, ma la fermezza della linea, ora tondeggiante ora più secca, spazza via, ancora una volta, la tentazione dell’etichetta, lasciando ai cuori disegnati sul petto degli Angeli ribelli solo quel tanto di poesia che garantisce la sequenza del loro battito.
‒ Arianna Testino
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