La modernità di Medardo Rosso. A Firenze
Sei sculture e diciannove fotografie da lastre originali, per una piccola ma raffinata mostra al Museo Novecento di Firenze, che documenta l’importanza delle intuizioni stilistiche di Rosso.
Medardo Rosso (Torino, 1858 ‒ Milano, 1928) fu artista ribelle, non tanto per gesti clamorosi o violenti, quanto per un temperamento che lo incitava all’indipendenza. Basti dire che definiva se stesso “straniero apolide e anarchico europeo”, che il suo matrimonio con la giovane Giuditta Pozzi (dalla quale ebbe un figlio chiamato Francesco Evviva Ribelle) durò appena quattro anni, e che già da studente fu poco accomodante con la disciplina, tanto da essere espulso dall’Accademia di Brera nel 1883, dopo appena un anno di frequenza. Trovò invece la Scapigliatura congeniale al suo temperamento bohémien, e trasportò in campo plastico quelle forme pittoriche intrise di malinconia. Ma la sua ricerca proseguì incessante, al punto che si può considerare Rosso come l’anello di congiunzione fra l’ultimo Ottocento e la modernità del Novecento, sia in termini di contenuti che di stile.
BRUTALE QUOTIDIANO
Se Lorenzo Bartolini era stato l’inventore del bello naturale scultoreo, Rosso può essere considerato il profeta del “quotidiano naturale”, ispiratogli dai vari soggiorni a Parigi fra gli Anni Ottanta e Novanta del secolo, quando conobbe la pittura espressionista e i suoi soggetti tratti dalla strada. Trasportandoli nella tridimensionalità, ne indaga la psicologia in linea con la maniera inquieta della Scapigliatura ma anche con il piglio scientifico già visto negli studi frenologici di Jean-Jacques Lequeu. Il rifiuto del suo tempo lo si legge con chiarezza nell’antimonumentalità delle opere, lontanissime da quelle “giunoniche” di Auguste Rodin, all’epoca nume tutelare della scultura europea. Superfici grezze al limite dell’abbozzo, volti colti in espressioni al limite della brutalità; il suo sperimentalismo è portatore di modernità, mantenendo però un sottile legame con la scuola rinascimentale italiana, di cui nella scultura fu maestro Michelangelo; infatti, l’incompiutezza formale di Rosso ricorda da vicino la lotta materica dei Prigioni. “L’uomo, tanto più si sottomette quanto più ha il senso dello spazio e dell’infinito”: così affermava Rosso, e verso l’infinito si aprono le sue sculture, la cui tridimensionalità sembra esplodere con scomposto vigore proiettandosi nello spazio. Opere “sfregiate” dall’incompiutezza, aperte a continui possibili ripensamenti.
LE INNOVAZIONI TECNICHE
Rosso dilatò la portata del suo tratto moderno introducendo alcune novità nei materiali utilizzati, in particolare quella cera che gli permise di ottenere effetti luministici propri della pittura. In particolare, il tipo nero e cupo esalta la garbata violenza e drammaticità delle sculture, quasi in un chiaroscuro caravaggesco, dove alla sensualità Rosso sostituisce la malinconia. Scolpendo, scava nell’essenza della materia e per suo tramite riporta in superficie istanze sociali sullo stile del naturalismo narrativo francese: Bambino alle cucine economiche è infatti una denuncia della povertà infantile, mentre la Ragazza che ride possiede qualcosa della fatale voracità di Anne Coupeau, meglio conosciuta come Nanà, da poco tradotta in Italia da Cameroni. Anche Giacometti, a partire dagli Anni Trenta, deve molto a Rosso, soprattutto la malinconia infusa nelle sue sculture esistenzialiste.
La continua riduzione del tratto, fino a sfiorare la mancanza di forma compiuta, ha ispirato Jean Dubuffet, così come i Poveristi italiani, con il dinamismo delle forme in continua trasformazione, negandosi e affermandosi contemporaneamente. Un processo simile a quella che è stata la “fluidità” dell’Arte Povera.
‒ Niccolò Lucarelli
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