Esilio e pittura. La storia di Arshile Gorky a Venezia
Fra le mostre più acclamate durante la settimana di avvio della 58. Biennale d’Arte, la monografica intitolata ad Arshile Gorky da Ca’ Pesaro ne ripercorre la storia umana e artistica. Tra fonti di ispirazione e guizzi di originalità.
È un debutto davvero importante quello siglato dalla monografica allestita fra le sale lagunari di Ca’ Pesaro, che accolgono la prima, grande retrospettiva italiana di Arshile Gorky. All’anagrafe Vostanig Manoug Adoian, nato a Khorkom, in Armenia, nel 1904, l’artista rivive negli ambienti del museo veneziano, raccontando le proprie vicende attraverso un denso corpus di opere, che coprono l’intero arco della sua esistenza. 1904-1948 è infatti la parabola temporale in cui si inscrive la monografica, accompagnando cronologicamente lo sguardo sulle tracce dei temi e delle istanze poetiche e formali che danno il ritmo alla produzione di Arshile Gorky – cognome scelto dall’artista in omaggio allo scrittore e attivista politico russo Maxim. In fuga dalla terra natale appena quindicenne, scampando al genocidio armeno, Gorky raggiunse gli Stati Uniti insieme alla sorella, trovando oltreoceano un fertile terreno sul quale coltivare l’interesse per le arti visive, la poesia e la letteratura, senza tuttavia dimenticare la propria condizione di esule.
I MODELLI
Come testimoniato dalle opere che danno il via all’itinerario espositivo, i modelli cui Gorky guardava furono una risorsa preziosa nella definizione del suo linguaggio grafico e pittorico. Le nature morte e i ritratti mettono in luce il debito, mai celato, nei confronti di Cézanne e Picasso, mentori tutt’altro che ingombranti, compagni di viaggio dai quali potersi allontanare durante il tragitto. Ne sono un esempio la Natura morta con teschio (1927-28 circa), la Natura morta (Composizione con verdure) del 1928-29 e la Figura blu su una sedia (1934-35 circa): richiami evidenti agli still life di matrice cézanniana o alle scomposizioni e ricomposizioni cubiste suggerite da Picasso, nei quali, tuttavia, la scintilla dell’originalità sembra brillare di luce propria, complice uno stile che non teme il confronto con il passato, attualizzandolo nel presente.
DISEGNI E DIPINTI
Anche i disegni risalenti agli Anni Trenta e gli esiti pittorici del decennio successivo riecheggiano le lezioni di Kandinskij, Miró e Léger, ma sempre con un piede nel territorio dell’indipendenza formale. Autonomia confermata dai lavori presenti nelle ultime due sale della mostra, che riuniscono le opere mature di Gorky e pietre miliari come Il fegato è la cresta del gallo (1944), Pastorale (1947) e Pittura verde scuro (1948 circa). L’assoluta padronanza del colore e il superamento della dicotomia astratto-figurativo impregnano le composizioni finali di Gorky, facendo risuonare, in superficie e in profondità, l’esperienza dell’esilio, che detona sia nelle accese cromie – come opportunità di riscatto e rinascita a nuova vita – sia nei toni plumbei del cosiddetto Ultimo dipinto (1948) – come inevitabile cornice di un’esistenza sradicata.
‒ Arianna Testino
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