L’arte italiana dalla ricostruzione agli anni di piombo. A Pistoia
Palazzo Buontalenti, Pistoia – fino al 18 agosto 2019. Nelle opere della collezione Intesa Sanpaolo dal 1945 al 1975, trent’anni cruciali della storia d’Italia, dal dopoguerra agli anni di piombo, visti attraverso le correnti artistiche del nostro Paese. Due i capitoli della mostra, dalla ricostruzione al miracolo economico, e dagli anni del benessere alle tensioni degli Anni Settanta.
All’indomani del 25 aprile 1945, l’Italia era in macerie, non soltanto materiali ma anche e soprattutto morali. Al mondo della cultura spettava il compito di ricostruire moralmente un Paese deluso e diviso, ricominciando anche a guardare alle esperienze straniere, adesso che la cappa autarchica era definitivamente caduta. Tuttavia le distanze fra DC e PCI fecero ancora sentire l’influenza della politica nell’arte.
ASTRATTISMO O FIGURAZIONE?
Fra le prime questioni che il mondo dell’arte si trovò ad affrontare ci fu quella del linguaggio espressivo; l’avversione di Togliatti per l’astrattismo fece propendere gli artisti in larghissima parte per la figurazione, più consona alle esigenze del “realismo sociale”; Renato Guttuso, membro del comitato centrale del PCI dal 1951, rafforzò questa propensione, che radunava tutti colori per i quali la nuova arte dovesse anche essere comprensibile al popolo. A un figurativo sulla scia del Picasso di Mougins, praticato da Cassinari e dallo stesso Guttuso, rispondono i “temerari” della via astratta, quali Romagnoni o Recalcati che però, in questi anni, fanno fatica ad affermare il loro lavoro. Ma i radicali cambiamenti della situazione sociale del Paese permetteranno l’ampliamento della mentalità critica in fatto di arte.
IL MIRACOLO ECONOMICO E LE SUE PROBLEMATICHE
Con gli Anni Sessanta, anche in Italia la società consumistica di massa, il materialismo e il mito del benessere sopravanzano i valori morali di una società che fino al giorno prima era prevalentemente agricola e legata a ritmi e tradizioni millenari. L’arte si adegua all’ebbrezza del nuovo e del moderno, saltano le categorie sino ad allora conosciute e il mondo dell’arte si sfrangia in decine di movimenti. A Roma, la Scuola di Piazza del Popolo rappresenta il gruppo più accreditato della scena italiana: ne fanno parte, fra gli altri, Mambor, Rotella, Bertini, Schifano, Pascali e Novelli. Un gruppo eterogeneo, attento però a cogliere gli aspetti della nuova società, vicina per certi versi alla Pop Art americana, di cui rifletteva i colori e la vivacità. In particolare, Schifano e Rotella ne catturano gli aspetti cinematografici, mentre Bertini, con le sue stampe fotografiche, coglie i conflitti dimenticati nei Paesi più arretrati.
L’UTOPIA DEI POVERISTI
Con Appunti per una guerriglia del 1967 Germano Celant fissa il programma dell’Arte Povera. Alle soglie del Sessantotto e dello scontro generazionale, Kounellis, Paolini, Fabro, Gilardi, Merz e i loro colleghi cercano il dibattito, l’incontro con il pubblico, vogliono “introdurlo” nell’opera d’arte, provocarlo, a volte anche scioccarlo, attraverso riflessioni concettuali giocate sulla concretezza del colore o del materiale (Fabro utilizza anche la pelle animale, ad esempio): l’analisi psicologica della società procede nel senso della comprensione del ruolo dell’individuo e delle implicazioni del suo modo di rapportarsi con gli altri, anche in ottica di dialettica politica. Il ruolo dell’artista viene discusso a livello tecnico anche da movimenti quali la Pittura Analitica, la performance e l’arte ambientale.
Tre decenni che hanno portato con sé cambiamenti rapidi e in un certo senso sconvolgenti, lasciandosi dietro l’alienazione delle città e il grigiore di esistenze quotidiane il cui disagio ha in larga parte alimentato gli anni di piombo. E l’arte, a differenza della politica, è parsa l’unica voce che cercasse di capirne le ragioni.
‒ Niccolò Lucarelli
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