Antonio Fontanesi, romantico e randagio. A Reggio Emilia
Musei Civici, Reggio Emilia ‒ fino al 14 luglio 2019. Non una mostra solo su un pittore, bensì sui “tramandi” – ovvero l'eredità – che la sua opera ha lasciato nelle generazioni successive. L'inquieto Antonio Fontanesi, reggiano di nascita ma ramingo nella vita, è il punto di partenza per una sua riscoperta e un'indagine sugli echi del suo romanticismo.
Scopo di un progetto come quello allestito ai Musei Civici reggiani, secondo una delle curatrici, Virginia Bertone, è ripercorrere la “storia di una resurrezione artistica”. Una resurrezione cominciata nel 1901, quando alla Biennale di Venezia si riportò in vita la reputazione e la considerazione di Antonio Fontanesi (Reggio Emilia, 1818 – Torino, 1882), dopo la terribile stroncatura delle sue Le Nubi alla IV Esposizione Nazionale di Torino del 1880 (purtroppo quest’opera ora non è più esposta in mostra). Il pittore, in vita, non fu compreso: troppo internazionali i suoi modelli (Corot, su tutti), troppo romantici i suoi paesaggi, troppo irregolare l’intensità emotiva che scaturiva dalle sue opere. Fu solo tramite gli allievi e pochi critici che ben compresero la portata della sua ricerca che a Venezia, nel 1901, giunsero quasi sessanta opere, alcune delle quali sono state rintracciate e radunate a Reggio Emilia per dimostrare l’oggettiva novità del linguaggio di Fontanesi, sempre intento a cogliere “il sentimento della natura”, a indagare i rapporti tra luci e ombre e a connotare le atmosfere con un senso profondamente drammatico.
GLI ALTRI ARTISTI
Già alcuni artisti avevano però osservato e preso esempio dallo stile e dalle caratteristiche della pittura di Fontanesi: ne parlò in termini entusiastici Pellizza da Volpedo (a Reggio è giunto un nucleo importante di suoi dipinti), fu riconosciuto come precursore del Divisionismo da Angelo Morbelli e dal critico Vittore Grubicy: e proprio a questi protagonisti ben più noti è dedicata la sala dove si svelano i dialoghi, le influenze, i primi “tramandi” – secondo una definizione di Francesco Arcangeli – che compaiono nelle tele più tarde. E, fin qui, la mostra è gradevole e interessante, anche grazie ad ampi e completi approfondimenti sulla vita del protagonista e sulla vicenda critica attorno alla sua figura, ma la sorpresa si comincia a intuire nella sezione seguente, dove fanno capolino opere di Carlo Carrà, Felice Casorati, Arturo Tosi: è l’embrione di ciò che verrà meglio definito nel finale, cioè la verifica di quanto, quegli artisti che lavorarono tra gli Anni Venti e Trenta del Novecento, attinsero dal senso del paesaggio di Fontanesi: “La discendenza non è diretta. L’eredità è interpretata attraverso un esercizio di attenta rilettura” (Giulia Bertolino), ma l’accostamento de Il Mulino del pittore reggiano con certe vedute dei tre artisti novecenteschi, dichiaratamente estimatori del predecessore, innesca dei rimandi formali che difficilmente si possono ritenere casuali.
GRAN FINALE CON BURRI
L’opera con cui si chiude la mostra è un Sacco di Alberto Burri. Cosa c’entra il grande informale con un pittore di paesaggio ottocentesco? L’anello di congiunzione non sta tanto nelle opere di altri pittori – che pur sono indispensabili per comprendere lo svolgimento della teoria – quanto nelle ricerche storico-artistiche di Francesco Arcangeli in cui parlò di “ultimi naturalisti”. Sulla scia del maestro Roberto Longhi, il critico si impegnò “nell’individuazione di ‘tramandi’ che per vie diverse potevano riconoscersi tra la pittura romantica e quella informale”, alla cui base stava il “nuovo significato dato alla parola natura: un significato che include tutto l’irrazionale degli elementi del cuore”: ecco allora le tele materiche di Ennio Morlotti, i paesaggi di Pompilio Mandelli, le vedute geometrizzanti di Sergio Romiti, e infine quella iuta strappata, cucita, verniciata di Burri il quale, pur geograficamente lontano dagli emiliani, “deve ad Arcangeli una lettura in chiave esistenziale che forse lo accosta, agli occhi dello studioso, agli artisti di una Padania ‘provincia del mondo’, ancora erede di un naturalismo romantico” (Claudio Spadoni).
‒ Marta Santacatterina
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati