Due pittori a confronto. Soffici e Carena in Toscana

Museo Soffici e del Novecento italiano, Poggio a Caiano – fino all’11 gennaio 2020. Nel decennale della fondazione, il Museo Soffici e del Novecento italiano propone un altro capitolo di confronto fra l’illustre artista poggese e i suoi contemporanei: in 72 opere equamente suddivise, l’accostamento con Felice Carena, con il quale ebbe convergenze di pensiero e di riferimenti stilistici.

Entrambi accomunati da un’idea di arte fatta di sobrietà formale lungamente meditata, intrisa di pensiero e di empatia con il paesaggio o la condizione dell’individuo, Ardengo Soffici (Rignano sull’Arno, 1879 – Vittoria Apuana, 1964) e Felice Carena  (Cumiana, 1879 – Venezia, 1966)  furono artisti di “etica e natura”, dalle cui opere esala l’onesta fatica del creare, il rapporto con una realtà intrisa di memoria storica e atavica.
I due autoritratti esposti (rimasti sin qui inediti) ci mostrano gli artisti nella loro piena maturità: Soffici ascetico ed “etrusco”, mentre Carena, dalla corta barba canuta, sembra rarefarsi nella pennellata eterea, lo sguardo sereno perso nel vuoto.

FRA ITALIA ED EUROPA

Ad accomunarli, oltre all’anno di nascita, anche l’ammirazione per la pittura moderna di Paul Cézanne, che in Europa aveva ridefinito i canoni della forma. In Italia, le loro simpatie andavano a due figure “indipendenti” della scena artistica: Armando Spadini e Medardo Rosso. A convincerli l’onestà e la schiettezza delle loro opere, spesso discusse, tuttavia ammirate, a volte con malcelata invidia. Da queste basi comuni, divertirono due percorsi distinti: la pennellata di Soffici è asciutta, magra, e ancor di più lo sarà dopo il “ritorno all’ordine”; rispecchia l’ambiente e il carattere toscani, è espressione di un’atavica parsimonia e semplicità, che in arte ha avuto nei Primitivi senesi, in Masaccio, in Paolo Uccello, illustri predecessori. Carena è invece pittore di più ampio respiro compositivo, che trae ispirazione dalla modernità seicentesca di El Greco, così come dall’impeto degli espressionisti e dal colorismo di Matisse. Se Soffici predilige il perdersi nel silenzio del paesaggio agreste, Carena indugia sulla figura umana, indaga il mistero della maschera, e si fa carico di silenzi forse più profondi. La mostra, caratterizzata da un allestimento sobrio e funzionale, si incastona con garbo fra le volte e le colonne delle antiche scuderie medicee, e presenta un confronto-dialogo sulla base delle sintonie di vedute sul piano etico, professionale, morale e ideale.

Ardengo Soffici, Natura morta, 1915 16. Milano, Collezione privata

Ardengo Soffici, Natura morta, 1915 16. Milano, Collezione privata

IL PRIMO NOVECENTO

Rientrato nel 1909 dall’ennesimo viaggio a Parigi, Soffici guardava alla modernità da due differenti punti di vista: il Postimpressionismo e il Cubo-Futurismo, di cui in Francia aveva visto il doppio volto: quello di Braque e quello di Marinetti, che continuò a esplorare fino alla Grande Guerra. Composizioni geometriche ispirate ai collage di Braque si alternavano a figurazioni paesaggistiche che ricordavano Cézanne. Da sottolineare però la presenza in mostra di una energica Figura, risalente al 1903, in cui il “brutalismo” del corpo richiama direttamente la scultura di Rosso.
Differente il percorso di Carena, improntato a una lettura romantico-simbolista della figurazione, molto evidente nei Putti ebbri danzanti (1909), i cui volti sono grottesche maschere di morte, e nel ritratto della moglie, che richiama pensose sensibilità nordeuropee, tipiche della Secessione di von Stuck. Interessante anche il confronto fra le nature morte: quelle di Soffici sono sobrie, lineari, Carena è più dinamico e colorato, si avverte l’influenza di Matisse. Nelle composizioni di fiori del 1914 e 1917 si assiste a una vera esplosione gioiosa che la pittura riesce a esprimere compiutamente nel colore.

LA PERSISTENZA DELLA MEMORIA

Passata la Grande Guerra e rifluita la corrente delle avanguardie, Soffici “tornò all’ordine”, mentre di Carena si può dire che non vi si fosse mai allontanato. A partire dagli Anni Venti e sino alla scomparsa, per entrambi la pittura sarà un mezzo per manifestare sintonia con il proprio retroterra. Per il toscano, le colline poggesi sono i luoghi degli anni giovanili, immortalati con delicatezza poetica quasi carducciana: paesaggi intrisi di operoso silenzio, un mondo agreste in cui la figura umana non appare, ma di cui però s’intuisce la presenza, la bontà del lavoro, quasi una citazione del Buon Governo del Lorenzetti: case coloniche, pagliai, filari di viti, cipressi; il paesaggio è ordinato, armonico, geometrico, un luogo semplice eletto a insegna di vita.
Carena è invece pittore di narrazione prosaica più che poetica, che sintetizza in un “impossibile” realismo astratto per tramite di una figurazione più marcata, intensa, a tratti anche drammatica e inquietante, come gli arlecchini dal respiro picassiano. All’eleganza e trasparenza dei toni, al gusto della composizione, Carena alterna momenti più intensi, come nella figura biblica del Pastore, che immortala come un profeta del deserto, dello stesso colore della roccia e della sabbia, avvolto in un lacero saccone. Memorie di un passato storico e mitico risalgono dal fondo di Teatro popolare, un’opera dal sapore antico, da tragedia greca e pirandelliana, che rivela l’afflato europeo di Carena. E se il Tamburino ricorda Il pifferaio di Manet, Bagnanti è in equilibrio fra l’Espressionismo e l’ultimo Renoir.
L’uno dal paesaggio, l’altro dalla figura, entrambi seppero trarre una delicata spiritualità con cui irradiarono la tela, nel nome di una visione dell’arte di caratura europea.

Niccolò Lucarelli

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Niccolò Lucarelli

Niccolò Lucarelli

Laureato in Studi Internazionali, è curatore, critico d’arte, di teatro e di jazz, e saggista di storia militare. Scrive su varie riviste di settore, cercando di fissare sulla pagina quella bellezza che, a ben guardare, ancora esiste nel mondo.

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