Breve e parziale viaggio nell’italia fascista delle arti
A Cortina d'Ampezzo una mostra racconta le censure della Repubblica di Salò ai danni dell'arte. Pubblichiamo un estratto dal testo in catalogo firmato dal curatore Demetrio Paparoni.
Il nostro racconto inizia a Como nell’aprile del 1944 con la visita di tre uomini alla Galleria Borromini. Impermeabile grigio, di quelli buoni per tutte le stagioni, Borsalino in testa, i tre si soffermano davanti a ogni dipinto, si scambiano occhiate, annuiscono o scuotono la testa, sussurrano qualche parola e passano al successivo. Ogni tanto uno di loro punta il dito verso un quadro, gli altri spingono il collo in avanti per leggere la targhetta. È a quel punto che uno dei tre, uno smilzo che sembra aver avuto in prestito il suo impermeabile da un amico di ben altra stazza, tira fuori da una tasca un taccuino nero, lo apre, traccia un segno come a cancellare o a sottolineare, e lo rimette in tasca.
A osservarli incuriosite sono una giovane con i capelli raccolti in uno chignon basso e una signora di età indefinita, ben vestita e con un turbante, come se ne vedono tanti in quel periodo di guerra in cui avere capelli ben acconciati non è facile. Le due donne chiacchierano sulla soglia dell’ufficio, un’ampia stanza con una scrivania e un salottino con tavolo basso in radica e poltroncine a pozzetto in pelle verde scuro. «Inauguriamo domani», dice la più giovane avvicinandosi ai tre e accennando un sorriso. «La mostra non è ancora aperta al pubblico, mi spiace».
«Lo è per noi», ribatte secco uno dei tre. «È un bellissimo de Chirico» balbetta la giovane volgendo lo sguardo verso la signora con il turbante. «Nessun problema», dice la donna avvicinandosi ai visitatori: «Un dipinto così non si trova facilmente in Italia».
«Ne avete altri?» chiede lo smilzo rivolgendosi alla ragazza che non fa in tempo a rispondere. «Prendi degli inviti per i signori, cara» le dice la donna indicando l’ufficio. «Scusate» aggiunge subito «Forse è meglio che vada io, non credo sappia dove sono conservati».
Nello studio la donna avverte la ragazza di non dire che hanno altri quadri e dove sono. «Questi non sono collezionisti» chiarisce, «non hanno neanche tolto il cappello. Lascia fare a me».
Tornata dai visitatori la donna accenna l’ennesimo sorriso e porge loro dei cartoncini che odorano ancora di inchiostro.
«Se volete posso dirvi qualcosa del dipinto». E senza aspettare risposta continua a parlare: «È un bellissimo de Chirico del ’26. Si intitola Manichini guerrieri (Archeologi). Nel quadro convivono il tema dell’interno e quello del manichino». La donna trattiene il fiato un attimo: «Guardi come sono enigmatici questi manichini. Però ci ricordano quanto sia importante l’uomo».
«Qui non vedo uomini» la interrompe uno dei tre «vedo due pupazzi. E perché sarebbero archeologi, poi?».
«Perché scavano nel profondo della natura umana. Un manichino è una parodia dell’uomo. Più tentiamo di farli somigliare a un essere umano più diventano freddi e sgradevoli. Ci sono utili in sartoria, o dietro le vetrine di un negozio, ma sono pur sempre degli oggetti senza vita. Qualunque cosa indossino mantengono sempre un carattere innaturale. Sono figure mostruose, lo sono anche quando appaiono ridicole o buffe. Ma sono anche figure reali che si mostrano per quello che sono: non possono essere scambiate per esseri umani. Più capiamo quanto un manichino sia insignificante più comprendiamo quanto sia importante l’uomo».
I tre si scambiano un’occhiata: «Questi due sono imprigionati in una stanza».
«Guardi bene. Lo spazio è aperto, come sempre in de Chirico non c’è confine tra lo spazio racchiuso di una stanza e il paesaggio all’esterno. Anche quando mostra oggetti banali si avverte che de Chirico sta rappresentando qualcosa di irrazionale, privo di senso, qualcosa che accompagna l’uomo in una vita cupa. Non so se sono stata chiara».
«Lo è stata eccome» dice uno dei tre facendosi serio, quasi minaccioso «quindi l’uomo di oggi è un manichino? Ha la sensazione di vivere in uno spazio aperto ma in realtà vive chiuso in una stanza. Prigioniero, insomma».
«Beh… no…» balbetta la donna.
«Questo quadro non può essere esposto» chiude brusco l’uomo «dite al direttore che domani mattina deve presentarsi nella sala stampa della Prefettura. Non abbiamo altro da aggiungere». I tre salutano con un cenno del capo e, senza aggiungere altro, escono di scena.
La storia sin qui raccontata è frutto di fantasia. Non del tutto, però. Il 17 marzo 1949 Milano Sera pubblicò il dipinto di de Chirico di cui si è detto e, nell’informare che l’opera sarebbe stata presente in una collettiva ordinata a Milano dalla Galleria Borromini, raccontava che nell’aprile del 1944, alla vigilia dell’inaugurazione di una mostra di pittura, al direttore della sede di Como della stessa galleria era stato intimato, in Prefettura, di rimuovere dall’esposizione i dipinti di Modigliani e di Campigli, perché ebrei. Lo stesso pomeriggio, raccontava ancora il giornale, sempre a Como, un addetto della Prefettura si recò in galleria per verificare che le opere fossero state realmente rimosse. Constatato che in mostra c’erano anche dei quadri metafisici di de Chirico, l’uomo ordinò di rimuovere anche quelli. «Questa pittura deve sparire, ha detto Hitler» fu la sua spiegazione.
L’articolo su Milano Sera ci riporta all’aprile del 1944. Nel settembre dell’anno precedente il Terzo Reich aveva occupato l’Italia centrosettentrionale. Siamo in piena Repubblica di Salò, in una fase storica segnata dall’influenza di Hitler e dei suoi gerarchi che, non paghi delle razzie di capolavori del passato compiute nel nostro Paese con il benestare di Mussolini, hanno deciso che in Italia anche l’arte deve allinearsi alla politica tedesca. La vicenda della censura delle opere di Modigliani, Campigli e de Chirico alla Galleria Borromini lo testimonia.
– Demetrio Paparoni
Testo tratto dal catalogo della mostra Dal caso Nolde al caso de Chirico, a cura di Demetrio Paparoni, FarsettiArte, Ex Funivia Pocol, Cortina d’Ampezzo, 8-30 agosto 2020
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