Il mondo a testa in giù. Marc Chagall a Rovigo
La monografica allestita a Palazzo Roverella spalanca le porte sul magico mondo di Marc Chagall, il pittore errante che ha attraversato il Novecento con la sua valigia di sogni. Un viaggio fiabesco tra animali volanti, violinisti vagabondi e spose-aquilone.
Si chiamava Moishe Segal e se questo nome vi dice poco la cosa è abbastanza normale: era nato in una famiglia ebrea nella Russia antisemita di fine Ottocento e per lui il padre aveva previsto un pacifico futuro da negoziante d’aringhe. Ma divenne pittore, e, come se non bastasse, in un Paese in cui la figurazione era bandita e i cambiamenti arrivavano con decenni di ritardo rispetto al resto d’Europa. Ora, se invece del suo nome ebraico lo chiamassimo Marc Chagall (Vitebsk, 1887 – Saint-Paul-de-Vence, 1985), tutti lo riconoscerebbero: nemmeno il Novecento dalle mani insanguinate è riuscito a cancellare i sogni e le speranze di questo grandissimo pittore visionario in esilio dalla sua Russia. In valigia ha portato con sé una giostra di visioni e personaggi in cui la realtà si (con)fonde con un repertorio immaginifico rubato alle favole e alle vignette popolari, rischiarate dall’aura sacra delle icone ortodosse.
LA MOSTRA SU CHAGALL A ROVIGO
Questo turbinio d’immagini fiabesche spalanca i portoni di Palazzo Roverella a Rovigo per rapire il visitatore in un carosello di sogni: le due sezioni della mostra indagano lo stile pittorico di Chagall prima e dopo l’esilio, dal realismo degli inizi alla trasfigurazione della patria lontana alla luce della memoria. Le oltre cento opere selezionate dalla curatrice Claudia Zevi sono il passaporto dell’anima di Marc Chagall, prestiti d’eccezione dagli stessi eredi dell’artista, da storiche collezioni private e grandi eccellenze museali, come la Galleria Tret’jakov di Mosca, il Museo di Stato Russo di S. Pietroburgo, il Pompidou di Parigi, la Thyssen Bornemisza di Madrid e il Kunstmuseum di Zurigo. “Anche la mia Russia mi amerà”, profetizzava Chagall nella sua autobiografia: scriveva queste parole all’inizio dell’esilio dalla Russia che lo avrebbe adorato, aveva trentaquattro anni e ancora non sapeva che la vita gliene avrebbe regalati 97 da vivere.
L’IMMAGINARIO DI CHAGALL
Paesini di campagna senza tempo, incantati in un Medioevo di cristallo: è lì che Chagall farà sempre ritorno, con il corpo e con l’anima, in quella minuscola Vitebsk che ai suoi occhi era grande come un firmamento, decadente e improduttiva ai confini tra Russia e Lettonia. A un’umanità assetata di stabilità e certezze Chagall offre un mondo da guardare a testa in giù, dalla prospettiva dei folli: il suo universo brulica di animali volanti, asini, capre, mucche, pesci; s’incontrano acrobati, violinisti strampalati e sirene, saltimbanchi, pendole, violini, oggetti di ogni tipo che dai ricordi dell’infanzia migrano sulla tela per distillare temi e domande universali come la fede, l’amore, la morte e la salvezza.
Chagall è il cantastorie che fin da bambino ama guardare la città dall’alto dei tetti: i suoi ricordi affiorano sulla tela, presenze che abitano la sua anima comparendo laddove l’osservatore non se li aspetta, ma il sognatore sì: ecco che al rintocco della pendola di famiglia tutto prende vita e si ritrova a fluttuare sopra le isbe, le abitazioni russe di campagna; al canto del gallo sbocciano fiori e visioni, si risvegliano strade senza case e abitanti che camminano in aria, come la sua Bella, l’adorata moglie che lui tiene per mano per non farla fuggire come un aquilone al vento.
IL FUTURO RACCONTATO DA CHAGALL
Che fosse uno squattrinato artista in cerca di fortuna, un esule dall’Unione Sovietica, il commissario per le Belle Arti di Vitebsk o un maestro stimato invitato al MoMA, Chagall ha annullato il tempo per parlare alle generazioni future: a loro ha raccontato il destino dell’uomo con l’esperanto delle emozioni e degli affetti, anima nomade che è riuscita a scovare l’ultimo residuo di bellezza tra gli orrori di un Novecento funambolo tra morte e redenzione.
Il suo blu appartiene ai sogni e agli innamorati che si librano fino a sovrastare la città e ogni sofferenza; il suo blu è il colore dell’attesa di Dio, dell’amore, di se stessi. L’attesa da una finestra alla sera, quando si sta con il gomito sul davanzale, il mento appoggiato su una mano e le risposte alle domande sulla vita portate via dal suono di un violino lontano.
‒ Serena Tacchini
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