Canova. Tra innocenza e peccato: la lettura del Mart porta il contemporaneo ai piedi del maestro
Le opere del genio neoclassico in dialogo con la fotografia contemporanea di Mapplethorpe, Pedriali e Newton, e la scultura di Stifano e Viale
Corpi. Il secondo piano del Mart di Rovereto è invaso da corpi. Ancora prima di entrare, un meraviglioso Roberto Bolle accoglie come un’ala di gabbiano – i muscoli perfetti e lucenti – i visitatori. Non si vede, ma questa è una mostra dedicata ad Antonio Canova (Possagno, 1757 – Venezia, 1822): o meglio, alla purezza del marmo e del gesso di Canova, e a quel peccato che lo scultore neoclassico cela a malapena dietro un velo d’innocenza. Questo è il punto di partenza per un dialogo con una serie di opere ottocento- novecentesche, in apparenza di una fisicità più brutale ma segretamente dolci, in mostra al Mart. A fianco della Ninfa dormiente, della Maddalena penitente e del calco in gesso delle Tre Grazie ci sono gli abbracci omoerotici di Robert Mapplethorpe, i dipinti psichedelici di Paolo Marton, le sfocate riprese illecite di Miroslav Tichy, la Psiche tatuata di Fabio Viale, le fotografie materiche di Carla Cerati: sono oltre duecento le opere, in quella che il co-curatore Denis Isaia chiama la “tana dell’antiquario”. Come di consueto compaiono opere dalla collezione privata del presidente del Mart e ideatore della mostra Vittorio Sgarbi, come nel caso di Filippo Dobrilla, qui a fianco del video di Jeff Koons con Cicciolina e a Dino Pedriali, con le sue delicate e sfrontate foto di nudo maschile.
L’OBIETTIVO DELLA MOSTRA CANOVA. TRA INNOCENZA E PECCATO
“‘Tra innocenza e peccato’, fa riferimento all’incontro tra l’ideale di bellezza dell’arte classica e la sensualità nascosta di Canova: mettere in luce questo aspetto è uno dei pregi della mostra”, spiega la co-curatrice Beatrice Avanzi. “Questa lettura restituisce un Canova vero e vivo, allusivo e “al limite”, come era percepito al suo tempo. E dire che Roberto Longhi, che amava Caravaggio, lo definì “nato morto”! Questa mostra va a rileggere l’opera di Canova, accostandola alla grande critica della sua epoca, dalle citazioni di Flaubert, che provava il “desiderio di baciare l’ascella di Psiche”, a quelle di Foscolo, che vedeva nella Venere Italica “non una dea ma una bellissima donna””. La mostra, che molto deve ai 14 prestiti della Gypsotheca di Possagno, coinvolge sia gli artisti che hanno cercato lo stesso ideale di purezza sia coloro che lo hanno (apparentemente) negato: “Pensavamo di chiamare l’ultima sezione ‘Tradire Canova’, ma dopo l’avanguardia la bellezza si trova anche nei corpi e nelle figure che sfiorano il grottesco”, raccontano i curatori. La bellezza delle figure proposte da Jan Saudek e Joel-Peter Witkin, donne nane o senza alcuni arti o transessuali, non sembrerà però affatto violenta agli spettatori che superino una visione abilista e post-colonialista, e aprano la propria mente a quella spiritualità che è comune a tutti i corpi.
IL CONFRONTO: LA VENERE ITALICA E LE AMAZZONI DI NEWTON
Dei molti dialoghi-scontri tra Canova e i suoi (più o meno ortodossi) discepoli, uno cattura facilmente l’attenzione: quello tra la Venere Italica e i titanici ritratti di Helmut Newton. Al centro della mostra e ben visibile dall’ingresso, la statua di gesso del 1811 sembra incastrarsi goffamente in una teoria di donne, linde e allineate come in una parata militare. Queste amazzoni – completamente nude, se si eccettuano i vertiginosi stiletti ai piedi – si stagliano orgogliose e sfrontate proprio dove la Venere sembra ritrarsi, pudica. “Canova e Helmut Newton”, racconta Vittorio Sgarbi, “appartengono sicuramente a mondi estranei: uno legato all’innocenza, l’altro al peccato, persino alla minaccia. Eppure, venendo al Mart, si percepisce proprio grazie a questi scambi come Canova continui a vivere: anche se l’artista apparentemente più algido e chiuso ha una visione che appartiene all’antico – si potrebbe dire che il filo che collega Fidia a Canova si interrompa dopo la morte di quest’ultimo – c’è un mondo di interpretazioni delle sue opere che indicano la pulsione del desiderio, e i sensi, che sono le stesse nelle sensuali donne di Newton”. Il bianco e nero intrinseco al classicismo canoviano diventa nel fotografo novecentesco una speculare dichiarazione d’intenti: alla sobrietà della statua si sostituisce la potenza degli scatti, alla femminilità umile, quasi umida, del primo soggetto, risponde nelle seconde una forza androgina e insieme splendidamente muliebre. La capigliatura ingentilita dai nastri della Venere, che quasi accovacciata copre con un drappo il suo morbido corpo, non riesce a occultare lo sporgere di una criniera alle sue spalle: è la testa della giunonica figura di Big Nude III, realizzata a Parigi nel 1980, che flette i muscoli senza vergogna né umiltà. Come a mostrare lo spirito indomito dentro i corpi delicati delle dive canoviane, questo apparente contrasto è un abbraccio che include le diverse anime delle donne, rivendicando per loro il diritto di essere tutto e il contrario di tutto.
UNA GRANDE MOSTRA PER IL MART E ROVERETO
Vittorio Sgarbi – anche presidente della Fondazione Canova – ha ricordato come questa esibizione vada a realizzare il suo obiettivo per il Mart: “La mia aspirazione era renderlo un museo di arte non moderna e contemporanea ma un museo di arte e basta, rendendola tutta popolare”. Canova, qui anche “inventore del design” grazie ai modelli in gesso replicabili, pone le fondamenta della percezione generale del corpo, sostiene Sgarbi, dal meraviglioso libro sulle persone travestite di Lisetta Carmi ai carnosi scatti di Iwrin Penn, “un Canova diventato fotografia”. Una mostra importante anche per Rovereto: “Mutuando l’espressione “essere all’ora del paese””, ha detto il sindaco Francesco Valduga, “questa mostra è all’ora della città: parte da Canova e da quel periodo che ha permesso a Rovereto di individuare la sua vocazione, diventando quella che è oggi”.
– Giulia Giaume
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