A Roma la sfida tra Caravaggio e Artemisia Gentileschi su Giuditta e Oloferne
È costruita attorno all’iconografia di Giuditta e Oloferne la mostra allestita al Palazzo Barberini a Roma. Un viaggio nella pittura a cavallo tra Cinque e Seicento. Tutte le volte che i grandi pittori hanno rappresentato Giuditta
La Giuditta di Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio, può essere a buona ragione definita un’immagine dirompente, come la qualifica la curatrice Maria Cristina Terzaghi. La mostra a Palazzo Barberini, però, però non si concentra sulla fortuna di un modello. Giuditta e Oloferne fu peraltro tenuta gelosamente segreta (dietro una cortina di seta) dal suo committente. Si trattava del banchiere ligure Ottavio Costa, che per primo ne intuì il portato rivoluzionario. L’esposizione racconta invece la storia di “una parola sussurrata all’orecchio”, “di una soffiata”. Infatti, nonostante le premure e gli sforzi del banchiere nel tenere nascosto il dipinto ‒impedendone così la circolazione di copie fedeli e assicurandone immacolato l’elevatissimo valore economico ‒, la fama di Giuditta e Oloferne iniziò a diffondersi a macchia d’olio. Molti artisti, seguaci o meno del Merisi, cominciarono a imitarne le novità, facendo leva sulla loro fallibile memoria e alimentando un passaparola irrefrenabile.
LA STORIA DEL DIPINTO DI CARAVAGGIO
È vero che del capolavoro si persero le tracce fino al 1951. Fu scoperto dal restauratore Pico Cellini, allievo di Roberto Longhi. Venne allora mandato a Milano, in fretta e furia, per essere incluso nella grande esposizione dedicata a Caravaggio, curata dal maestro del riconoscimento (Longhi per l’appunto). Tuttavia le caratteristiche del dipinto non passarono inosservate all’epoca della sua creazione. Prima di tutto, era stato rappresentato un “omicidio in diretta” che mirava a scandalizzare, creare uno shock nella mente dei conformisti. In secondo luogo, si assisteva al fallimento della donna “angelicata”. La Beatrice di Dante era un ricordo lontano: Giuditta con fermezza impressionante non si tirava indietro, pronta a compiere l’“impresa che passerà di generazione in generazione”, a opporsi al tiranno assiro e ai soprusi maschili spezzando “la loro alterigia per nome di una donna”.
DA CARAVAGGIO AD ARTEMISIA GENTILESCHI
Non esistono copie pedisseque del dipinto, ma molti artisti cercarono di emularne le soluzioni formali, la composizione, gli equilibri tra le figure, le passionali tonalità, lo spessore psicologico, la trasparenza espressiva, il rapporto d’intesa fra le due donne ‒ Giuditta e la serva. Trentuno opere rispecchiano le diverse interpretazioni del racconto biblico di Giuditta e Oloferne, ma non mancano rappresentazioni di David e Golia e di Salomé con la testa di Giovanni Battista. Nella prima sala, troviamo le soluzioni pre-Caravaggio. L’impostazione mitologica di Lavinia Fontana, i vividi colori del Tintoretto. Nella sala dedicata al capolavoro del Merisi sono invece esposte le sue imitazioni ‒ incredibili Cagnacci, Valentin de Boulogne, Vermiglio. Nella successiva, finalmente, il modello si arricchisce ulteriormente grazie alla voce di Artemisia Gentileschi. Ecco che assistiamo alla seconda rivoluzione: l’artista, sulle orme del padre Orazio Gentileschi, si contraddistingue per la perizia pittorica, per la resa degli abiti e delle forme voluttuose delle donne, ma si affranca e va oltre gli insegnamenti paterni. Interpreta il soggetto avvalendosi della sofferenza personale, tirando in ballo emozioni contrastanti, appellandosi al desiderio di ribalta e vendetta per l’affronto subito. La relazione fallimentare, lo stupro a opera di Agostino Tassi e il processo estenuante che seguì l’atroce accaduto. Nel dipinto di Artemisia del 1612 (il quadro conservato a Capodimonte) le due donne diventano complici dell’assassinio, forti di un’intimità amicale che neanche Caravaggio era riuscito a rendere in pittura (perché non gli interessava). Giuditta e l’ancella afferrano insieme Oloferne che, dal canto suo, cerca di ribellarsi, stringendo al collo le vesti della serva. Eppure, Giuditta, senz’ombra di indugio, tenendo, stretti in pugno, i capelli del sovrano assiro, passa rapida ‒ sprigionando una forza bestiale ‒ la spada all’attaccatura della sua barba. Lapilli e schizzi di sangue bagnano la superficie del quadro, si riversano sul materasso: sembra di assistere dal vivo alla scena. Siamo spettatori attoniti dell’atto impetuoso; pietrificati, tra violenza e seduzione. Continuando nel percorso, ci si imbatte in una bellissima prova di espressività: il volto del David nel quadro di de Boulogne (conservato a Madrid). Non da meno, per eleganza e raffinatezza, il quadro di Cristofano Allori in cui Giuditta indossa una voluminosa veste d’oro sfarzosamente ricamata, solcata da una cintura bianca e ulteriormente impreziosita dal mantello porpora e blu ceruleo.
‒ Giorgia Basili
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