Il mito di Canova in mostra a Treviso
“Ultimo grande artista della Serenissima, e il primo moderno”: Treviso presenta così Antonio Canova, dedicandogli una mostra che non solo consente di ammirare celebri opere, ma ricrea pure un contesto ben preciso, quel territorio natale in cui l’artista si rifugiò dopo l’invasione francese
Il ritorno di Antonio Canova (Possagno, 1757 – Venezia, 1822) nel Trevigiano, e più precisamente nella sua Possagno – dove dopo la sua morte si costruì il complesso che comprende la casa dell’artista, la Gipsoteca e il Tempio Canoviano – contribuì in maniera significativa alla nascita del suo mito, quello che viene evocato anche nell’espressione “gloria trevigiana” che sta nel titolo dell’esposizione in corso al Museo Bailo.
TREVISO, IL ‘700 E CANOVA
Il progetto è di ampio respiro e prende le mosse dallo scenario artistico trevigiano degli ultimi anni del Settecento, dominato da una pittura ancora tutta veneziana ma che si esprimeva pure in una vasta campagna di decorazioni in palazzi privati, chiese, luoghi pubblici, ispirate ai dettami del più raffinato Neoclassicismo: tra i protagonisti, documentati in mostra da affreschi staccati, incisioni, disegni, spiccavano allora Giambattista Canal e Giuseppe Borsato.
A completare l’ideale ricostruzione della Treviso dell’epoca, narrazioni per immagini di personaggi originali – come il macellaio Giacomo Mazzuccato che riuscì a scalare la società trevigiana fino ad assurgere a un ruolo civico primario – nonché alcuni “reportage” di fatti storici, in primis dei quadri raffiguranti le battaglie napoleoniche.
Tracciati i “contorni”, ecco la superstar: il luminoso corridoio del Museo Bailo e gli ambienti adiacenti accolgono quattro monumentali gessi, realizzati per il conte Alessandro Papafava di Padova che, rivolgendosi allo scultore, intendeva proclamare la trendissima gara tra “antico” e “moderno” grazie al Perseo trionfante e al Creugante di Canova da un lato e alle copie dell’Apollo del Belvedere e del Gladiatore Borghese dall’altro. Un colpo d’occhio senza alcun dubbio straordinario, che si completa nell’accostamento di due interessanti tele di Giuseppe Borsato: con le sue vedute realizzate per il trevigiano Palazzo Martignoni, evoca un immaginario Museo Canoviano dall’alto valore simbolico, visto il desiderio mai soddisfatto dei committenti di poter possedere un’opera autografa dell’artista di Possagno.
CANOVA IN MOSTRA AL MUSEO BAILO
Le sezioni si susseguono, valorizzando peraltro le collezioni pubbliche trevigiane: ad esempio con il calco in gesso della Venere che esce dal bagno, posta in dialogo con la stessa dea dipinta da Francesco Hayez – non a caso presente in mostra in qualità di allievo di Canova – e di una Diana cacciatrice dell’amico bolognese Pelagio Palagi. E accanto a tatrionfo di bellezza, non poteva mancare il famosissimo gruppo Amore e Psiche, tanto quanto l’Endimione dormiente, che si lascia scrutare in una saletta isolata, scelta probabilmente per non disturbare il suo sonno. Non sfuggano però i quadrupedi: il cane che vigila su Endimione e il cavallo morente per il Teseo manifestano un’aderenza alla realtà che talvolta non si percepisce di fronte a molti soggetti umani della statuaria canoviana, perfetti e idealizzati. Di nuovo fanno eccezione le opere a destinazione funeraria e le interpretazioni della Maddalena penitente, quasi degli esercizi per riflettere sulle donne dolenti e che preludono gli afflati romantici.
Ma il progetto espositivo non perde di vista l’invenzione del mito: dai tanti ritratti di Canova alle incisioni che ne dilatarono la fama, la riflessione si sposta sull’importante esposizione curata nel 1957 da Luigi Coletti che, dopo un periodo in cui prevalse un atteggiamento critico nei confronti dello scultore, ne rilesse l’opera, riportandolo di nuovo al centro del dibattito storico-artistico. Una carrellata di opere ottocentesche locali accompagna il distacco dalle candide sculture, non senza averle potute ammirare anche attraverso l’obiettivo contemporaneo di Fabio Zonta e di Paolo Marton, autori di due belle serie fotografiche.
– Marta Santacatterina
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