Michelangelo e Sebastiano del Piombo: i nemici-amici del Rinascimento
Approfondisce non solo il modus operandi di Michelangelo la mostra al Palazzo dei Priori di Viterbo. A emergere è anche il suo legame di amicizia con Sebastiano del Piombo e la burrascosa fine della collaborazione tra i due
Fortemente voluta da Vittorio Sgarbi, in qualità di Assessore alla bellezza del comune di Viterbo, la mostra Michelangelo e la Cappella Sistina è ospitata nel rinascimentale Palazzo dei Priori. L’edificio quattrocentesco è siglato, in facciata, da un grande emblema di Sisto IV. Il pontefice che volle la Sistina era un della Rovere, così come Giulio II, che sarebbe stato committente della volta.
Curata da Cristina Acidini e Alessandro Cecchi, la mostra fa dialogare i disegni di Casa Buonarroti con due opere, da sempre conservate a Viterbo, frutto della collaborazione tra Sebastiano Luciani e Michelangelo: la Flagellazione e la Pietà.
Convitato di pietra è il cardinal Egidio da Viterbo, generale degli agostiniani quando il confratello Lutero avviava la Riforma. Come dimostrato da Esther Dotson, Egidio Antonini fu il principale curatore del programma iconografico della volta Sistina: era quindi legato a Michelangelo, ma era anche intimo di Giovanni Botonti, committente delle tavole dipinte da Sebastiano. Il cardinale Antonini fu l’autentico trait d’union fra Michelangelo, la Sistina e Viterbo.
IL PROCESSO CREATIVO DI MICHELANGELO
Ritratti cinquecenteschi di Egidio sono sia nella sala regia di Palazzo dei Priori, sia nella Sistina. Heinrich Pfeiffer ha infatti riconosciuto un ritratto ideale dell’Antonini nello Zaccaria, una figura provocatoriamente e tempestivamente ripresa da Raffaello per il suo Isaia in Sant’Agostino. Più che un omaggio si trattava di uno scherno, perché la chiesa del Campo Marzio era allora ancora in attesa di una Deposizione al sepolcro, commissionata a Michelangelo, che non sarebbe mai stata portata a compimento.
Nelle intenzioni del cardinal Riario, cugino di Giulio II e parte in causa nel cantiere sistino, la Deposizione era destinata alla tomba di Giovanni da Viterbo per la cappella che poi avrebbe accolto la pala di Caravaggio. Il mirabile Isaia di Raffaello punzecchiava Michelangelo che, irritato, pensò a una società con Luciani: l’allievo di Giorgione poteva sfidare Raffaello nella resa del notturno.
Da tempo Michelangelo custodiva la tavola per la Pietà, e sul retro andava segnando note per la Sistina, ma non osava procedere. Due volte aveva già fallito allogazioni riconducibili a Riario Sansoni e all’Antonini. Oltre alla Deposizione c’era stato il caso di San Lorenzo in Damaso, basilica inglobata nella residenza del cardinal Riario, protettore degli agostiniani, e sede abituale delle prediche di Egidio. Michelangelo esitava, sinché non fornì al veneziano contatti, cartone e disegni. Al contrario di Buonarroti, Luciani era un virtuoso della tecnica a olio e interpretò i disegni michelangioleschi, creando uno splendido notturno.
Perduto il cartone, della fase ideativa resta un foglio all’Albertina, con un Ignudo e sul verso il torso della Vergine della Pietà Botonti. Quel corpo atletico, il medesimo delle sibille sistine, va associato con uno studio di panneggio del British Museum. In ultimo, agli Uffizi, abbiamo un disegno con la mano del Cristo morto. Materiale più che sufficiente per stabilire in modo definitivo la coautorialità di Buonarroti, il cui apporto, come chiarito da Sgarbi, più che meramente grafico va inteso come progettuale.
LA COLLABORAZIONE TRA MICHELANGELO E SEBASTIANO DEL PIOMBO
A tale proposito è utile rileggere quanto Ludovico Dolce fa dire all’Aretino nel Dialogo della pittura: “Poi è noto a ciascuno, che Michelangelo gli faceva i disegni: e chi si veste delle altrui piume, essendone dipoi spogliato, rimane simile a quella ridicola cornacchia, ch’è descritta da Orazio. Ricordami, che essendo Bastiano spinto da Michelangelo alla concorrenza di Raffaello, Raffaello mi soleva dire: oh quanto egli mi piace, M. Pietro, che Michelangelo aiuti questo mio novello concorrente, facendogli di sua mano i disegni: perciocché dalla fama, che le sue pitture non stiano al paragone delle mie, potrà avvedersi molto bene Michelangelo, ch’io non vinco Bastiano (perché poca lode sarebbe a me di vincere uno che non sa disegnare), ma lui medesimo che si reputa e, meritamente, la idea del disegno”.
La gara era tra Michelangelo e Raffaello, tutti lo sapevano, e il cardinal Giulio de’ Medici ne approfittò per ottenere due capolavori per la cattedrale di Narbona. Nacquero così la Trasfigurazione della Pinacoteca Vaticana e la Resurrezione di Lazzaro, conservata alla National Gallery di Londra assieme alla Deposizione per Sant’Agostino.
La scomparsa di Raffaello non segnò la fine della collaborazione tra Michelangelo e Sebastiano. Il toscano infatti diede a Luciani i disegni per la Flagellazione di San Pietro in Montorio. L’opera piacque così tanto a Botonti che il chierico della camera apostolica chiese a Sebastiano di realizzare una replica da condurre a Viterbo. Il veneziano accettò ma si distanziò troppo dal modello, rendendo necessario un arbitrato per ridefinire il prezzo dell’opera. Per esplicita volontà di Botonti, Sebastiano dovette chiedere all’amico di fare da giudice. È evidente che il committente non voleva una perizia, ma un’autentica: voleva la certezza che quel dipinto fosse rimasto all’interno del margine di discrezionalità consentito a un interprete.
LA FINE DELL’AMICIZIA FRA MICHELANGELO E SEBASTIANO DEL PIOMBO
La fine della lunga amicizia tra i due artisti fu causata dalla commissione del Giudizio, il primo a sapere dell’allogazione fu Sebastiano che, nel luglio 1533, anticipò a Michelangelo l’arrivo: “di tal cossa che non ve lo sogniasti mai”. Un contratto che faceva sognare anche Sebastiano, il quale suggerì al pontefice di far dipingere a olio il Giudizio. Buonarroti comprese benissimo il fine di quel consiglio e rimase quasi paralizzato dall’offesa, narra Vasari che lasciò passare qualche mese e infine, sollecitato, esplose: “Finalmente disse che non voleva farla se non a fresco, e che il colorire a olio era arte da donna e da persone agiate et infingarde, come fra’ Bastiano; e così gettata a terra l’incrostatura fatta con ordine del frate, e fatto arricciare ogni cosa in modo da poter lavorare a fresco, Michelagnolo mise mano all’opera, non si scordando però l’ingiuria che gli pareva avere ricevuta da fra’ Sebastiano, col quale tenne odio quasi fin alla morte di lui”.
Di questa fase c’è un preziosissimo schizzo del Giudizio: è il primo in assoluto e c’è già l’impostazione complessiva dell’intera parete. Questo disegno è in mostra a Viterbo e da solo vale la visita. Da segnalare anche uno studio per un Cristo risorto che prelude alla soluzione sistina. Per quel che riguarda l’ideazione della volta, il foglio più interessante è uno studio per la cacciata dei progenitori dall’Eden, si vede qui come Michelangelo andasse distaccandosi dall’esempio di Masaccio, un soggetto che l’aveva affascinato quand’era solo un garzone e che ancora si recava a copiare nel 1505.
Un riverbero lontano della Brancacci echeggia anche nello studio di un braccio, che rinvia al gesto di Cristo nel Tributo. Quell’indicare assertivo diventerà una cifra stilistica michelangiolesca, lo si ritroverà nella volta, nella Resurrezione di Lazzaro e ancora nel Giudizio. Ma quel che più conta è il gioco di riflessioni che s’attiva tra i vari schizzi di Ignudi, o di figure in torsione, con i disegni accennati sul retro della Pietà. In questo sistema di risonanze c’è il senso della mostra.
Antonio Rocca
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