A Lugano la pittura di Alexej von Jawlensky vista da vicino
Un serrato focus sul periodo svizzero di Alexej von Jawlensky al Masi Lugano. Un continuo laboratorio di forme e un ripensamento della poetica che lascerà tracce decisive
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Il focus sul periodo svizzero e ticinese di Alexej von Jawlensky (Toržok, 1864 ‒ Wiesbaden, 1941) è una mostra contenuta nelle dimensioni ma preziosa, perché consente di immergersi “intimamente” e con dovizia di particolari nello sviluppo dell’opera dell’artista, seguendolo passo dopo passo lungo un breve, decisivo periodo.
Rifugiatosi in Svizzera allo scoppio della guerra, l’artista russo tedesco d’adozione fu in un certo senso costretto a rivedere la sua poetica, per ragioni concrete e ideali. Concrete, perché cambiò la sua situazione di vita, persino sul piano abitativo, ideali perché la tragedia del conflitto mondiale, ovviamente, lo influenzò profondamente non solo sul piano personale.
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Alexej von Jawlensky, Variazione. Sorgere del sole, 1918. Collezione privata
LE VARIAZIONI NELLA PITTURA DI ALEXEJ VON JAWLENSKY
Dopo una breve ma efficace introduzione in tre lavori alle ricerche che stava svolgendo in precedenza (una natura morta, un paesaggio e un ritratto caratterizzati non solo dal suo stile più celebre ma anche dall’intero spirito di un’epoca), al Masi Lugano inizia la dettagliata ricognizione di quanto avvenne sul piano pittorico dopo il trasferimento in Svizzera, dapprima a Saint-Prex, poi a Zurigo e infine ad Ascona.
Intervengono in questa occasione la serialità del lavoro, con le variazioni successive sullo stesso soggetto, e l’identificazione dolorosa ‒ ma per niente nichilista ‒ con i luoghi che lo accolsero. Volto e paesaggio diventano in un certo senso spazi intercambiabili di sperimentazione e di rinnovamento della forma.
Il primo paesaggio eseguito a Saint-Prex diviene così “madre di tutte le variazioni”, come recita il suo titolo. Le successive, progressive sublimazioni formali sono trasposizioni che fanno del dato reale sempre più una “cosa mentale”, ma che non rinunciano a una toccante restituzione delle atmosfere proprie dei luoghi a seconda delle stagioni ‒ luoghi che non sono universali, per quanto idealizzati, ma paradossalmente storici, come se partecipassero alle tragedie umane.
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Alexej von Jawlensky, Volto del Salvatore, 1920. Collezione privata. Courtesy Galerie Kornfeld, Berna
LA MOSTRA DI JAWLENSKY A LUGANO
Il ritratto ricompare solo dopo il trasferimento a Zurigo. E poi ricorre nel periodo di Ascona, fulcro della mostra. Serratamente alternato al paesaggio, il volto diventa campo di sperimentazione utile a fondare nuove forme, dove la massima stilizzazione si associa a un mantenimento della piena dimensione pittorica. Sembra di poter afferrare il volto nella sua interezza basandosi sui pochi tratti che risaltano in prima battuta, ma poi il volto sfugge, complesso, stratificato e mutevole come un paesaggio, appunto, compenetrato con il suo sfondo e con il quadro stesso.
Gli anni ad Ascona intensificarono dunque il “laboratorio delle forme” e lasciano traccia anche nella produzione successiva al ritorno in Germania, qui esemplificata dall’ultima opera esposta. La dimensione onirica, con la potenziale narrazione aperta dallo spunto orientalista di un lavoro come Testa astratta: favola araba del 1925, sembra delineare nuove possibilità di avventura, socializzazione, mescolanza, dopo la necessità del ritiro.
Stefano Castelli
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