La lunga e controversa storia d’amore per l’Arte Africana in mostra a Trieste
Nella zona industriale del Porto Vecchio va in scena il dialogo tra l’arte tradizionale africana sub-sahariana e alcuni artisti occidentali. Perché è importante trovare nuove risposte e cosa non ci ha convinto
A 145 chilometri dalla 18° Biennale di Architettura di Venezia curata dalla scrittrice ghanese-scozzese Lesley Lokko, dedicata all’ Africa e alla sua diaspora, a Trieste si visita la mostra Il Mito dell’Arte Africana nel ‘900. Da Picasso a Man Ray, da Calder a Basquiat e Matisse. L’esposizione, curata da Vincenzo Sanfo e dai due collezionisti Anna Alberghina e Bruno Albertino, è allestita al Magazzino 26 del Porto Vecchio, in un’area che ha volutamente mantenuto il fascino industriale originale, presto oggetto di un esteso progetto di riconversione dei magazzini abbandonati. Con l’arte, per l’appunto.
LA MOSTRA SUL MITO DELL’ARTE AFRICANA NEL ‘900
La mostra presenta un dialogo tra quasi cento manufatti d’arte tradizionale dell’Africa sub-sahariana (sculture funerarie, oggetti di uso cerimoniale, maschere, figure magiche, feticci, fino a oggetti di uso quotidiano come poggiatesta, serrature, cucchiai, sgabelli, coppe, tabacchiere, monete…) e quaranta opere di alcuni “artisti-faro” occidentali che dall’Africa sono stati colpiti, attratti, influenzati e profondamente cambiati: Picasso, Matisse, Man Ray, Calder, Haring, Basquiat, tra gli altri. L’intento è porre l’accento sul contributo che l’arte e la cultura africane hanno fornito al rinnovamento dell’Arte Moderna in occidente e su quanto abbiano contribuito e contribuiscano ancora a influenzare l’arte occidentale.
Potrebbe sembrare un semplice viaggio nella storia – dell’arte e nell’arte – una valida occasione per ammirare e scoprire un ricco, fantasioso e raffinato repertorio di opere, ma c’è di più: il confronto tra le due culture è un esercizio per acuire la consapevolezza di come sia cambiata la nostra visione occidentale sull’arte del continente africano. Facciamolo, dunque, questo esercizio.
ALLE ORIGINI DEL PRIMITIVISMO
Da dove nasce l’amore per il primitivismo? Le culture africane offrirono agli artisti un nuovo abc visivo, contraddistinto da forme apparentemente più semplici e figure più astratte, utilizzate anche per opporsi alla stagnazione della tradizione figurativa europea, intuendo alcune soluzioni a problemi plastici, formali ed espressivi. Il Primitivismo, nasce da un clima intriso di nuovi studi antropologici, dal fenomeno dei padiglioni culturali e nazionali (a partire dal Crystal Palace, Londra, 1851) e dalla nascita dei musei etnografici, che acquisiscono un rinnovato interesse in parallelo alle nuove imprese coloniali. Due aneddoti, tra i tanti: Max Ernst che trasmette a Peggy Guggenheim il suo appassionato interesse per le collezioni di maschere inuit e delle cosiddette “bambole” kachina; il dialogo tra Maurice de Vlaminck, André Derain e Pablo Picasso che, nel 1906, mentre acquistano una statua africana in un mercatino, sentenziano nell’ordine: “È quasi bella come la Venere di Milo”; “Bella quanto la celebre statua”; “Anche più bella”.
L’ARTE AFRICANA, DA OGGETTO A SOGGETTO NARRANTE
Ancora oggi, seppur in epoca post coloniale, è necessario interrogarsi sulla definizione stessa di arte africana (si pensi al dibattito sui noti bronzi del Benin). È possibile una nuova narrazione che, invece di dipingerla come “esotica” e “tribale” (come ancora avvenne in occasione della mitica mostra Magicien de la terre, al Centre Pompidou nel 1989, sebbene si possa considerare lo spartiacque nel riconoscere la “globalità” della produzione artistica africana) ne valorizzi la contemporaneità e il valore senza proiettare aspettative, interessi, modelli di valori occidentali che ne banalizzano la lettura.
Il mercato se ne è già accorto da tempo: la black art sta vivendo una crescita esponenziale, dominando il mondo della moda e dell’arte, cessando di essere l’oggetto di narrative aliene, per diventare essa stessa il soggetto narrante.
UN PROBLEMA DI ALLESTIMENTO
Quanta fatica costa sbarazzarci dei fantasmi eurocentrici, così velenosi e interiorizzati nella nostra cultura, però, lo dimostra anche questa mostra, che scivola nella scelta dell’allestimento, un mix tra l’ottocentesco stile del museo etnografico (la collezione privata di maschere e amuleti è esposta con tanto di teche e piedistalli color terra e pannelli color cioccolato, gli oggetti di culto e d’uso completamente snaturati e decontestualizzati) e lo studiolo di Lorenzo de’ Medici, colmo di meraviglie esotiche. Difficile il dialogo con l’arte occidentale, inserita qua e là per analogie puramente estetiche e formali. Il confronto risulta ancora più sordo dal momento che i curatori hanno deciso di dedicare gli unici testi presenti in sala alla spiegazione dei riti africani, senza nessun cenno agli artisti occidentali, presunta l’immediata comprensione di quest’ultimi, vista la loro notorietà. Giunge naturale un’ulteriore domanda. Sembra che i cento manufatti assumano valore solo perché accompagnati da alcuni “artisti-faro” occidentali: c’è ancora bisogno di nobilitare le culture africane identificando in esse l’origine delle Avanguardie europee, come se non fossero di per sé degne di interesse?
In quest’ottica, ispirandoci a Edward Saïd (con il suo pionieristico Orientalism, 1978) e Linda Nochlin (The Imaginary Orient, 1983, The Politics Of Vision: Essays On Nineteenth-century Art And Society, 1989), davanti a un’opera come Noire et blanche di Man Ray, dove la celebre Kiki di Montparnasse è ritratta nel suo pallido candore in contrasto con una maschera Baoulé, tipica della Costa d’Avorio, dovremmo chiederci quale idea di “Africa” vediamo, e perché.
Eleonora Milner
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