Achille Funi, l’umanista moderno in mostra al Palazzo dei Diamanti a Ferrara
Dalle opere giovanili alla pittura murale, passando per il Realismo magico e Novecento. 120 capolavori celebrano uno degli artisti più suggestivi del Novecento italiano
Per lui la pittura era “un fatto magico”, e pochi altri artisti sono riusciti, come lui, a sospendere le loro opere in una magica atmosfera fra realtà, sogno, passato, presente, classicismo e modernismo, per indagare il grandioso mistero dell’individuo. Virgilio Socrate Achille Funi (Ferrara, 1890 – Appiano Gentile, 1972), che Umberto Boccioni nel 1916 definì “il pittore più solido, più sincero, l’unico preoccupato di dare, attraverso pure forme e puri colori, una emozione plastica”, è uno degli artisti più interessanti della prima metà del Novecento italiano. La grande mostra ferrarese ne ripercorre approfonditamente tutte le tappe della carriera. Il risultato è un viaggio affascinante nell’arte e nella storia italiana, in decenni assai controversi.
Dal Futurismo a Novecento
Appena diplomato a Brera, Funi avvertì, come tanti altri colleghi, l’urgenza di superare la stagnazione dell’accademismo; per questo guardò con interesse a Cézanne, pioniere di tutte le avanguardie del Novecento, e sviluppò una sorta di “Cubismo futurista” in cui i contrasti volumetrici costituivano il nerbo della scena, declinata in prevalenza sui cromatismi di August Macke e sull’orfismo di Robert Delaunay, Funi si dimostra un pittore di respiro europeo. Benché venisse definito, ancora da Boccioni, “uno dei maggiori campioni della pittura italiana d’avanguardia”, ebbe poco a che fare con il Futurismo, preferendo Cézanne e le avanguardie francesi. Si lasciò inoltre suggestionare dal dinamismo delle emozioni plastiche, introdotto da Boccioni. Per Funi, però, il dato di realtà rimaneva imprescindibile, anche se mediato da una forte carica visionaria. La parentesi della Grande Guerra – cui prese parte come volontario nel Battaglione Ciclisti Automobilisti fino al dicembre 1915, e successivamente come Tenente dei Bersaglieri – gli dette l’opportunità di cimentarsi con il disegno e l’acquerello, per produrre bozzetti di vita militare, dal sintetico ma espressivo tratto cézanniano. Il “ritorno all’ordine” predicato da Soffici lo vide convinto discepolo; gli anni Venti furono un decennio assai denso per Funi, che li inaugurò all’insegna del Realismo magico, caratterizzato dal richiamo al Quattrocento ferrarese di Tura e di Cossa (che rimarrà pressoché costante nella sua opera), forte geometrismo, colori “smaltati”, e figure femminili sospese fra Cielo e terra. Una pittura intrisa di sensualità, erotismo, malinconia, che racconta la complessità dell’essere umano, attraverso un realismo “leggermente fuori fuoco”, come disse Robert Capa. Realismo, che troverà poi ulteriore sviluppo all’interno del gruppo Novecento, di cui fu tra i fondatori insieme, fra gli altri, ad Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Mario Sironi. In Funi, il primo Rinascimento quattrocentesco si fonde con l’austerità della scultura romana, accostati però al Picasso “classicista” e al sintetismo di Derain.
La metafisica e la fase tarda di Achille Funi ripercorsa in mostra
Ferrarese, Funi non poteva non essere almeno in parte influenzato dalla Metafisica di De Chirico, ma anche di Carrà, cui si avvicinò subito dopo la Grande Guerra, e vi tornò a più riprese anche negli anni Trenta. Profondamente affascinato dai miti classici e della sapienza rinascimentale, le volle rileggere anche in chiave metafisica, inserita in cornici personali dove ritornano le avanguardie d’Oltralpe. Il risultato è una produzione pittorica che, quasi sempre attraverso la figura umana, celebra “l’eternità della vita nell’arte», attingendo ai valori formali della tradizione antica, come al linguaggio più attuale di Cézanne, Picasso, Derain e de Chirico.
Gli anni Quaranta videro invece l’artista ripiegato nell’amarezza di veder svanire quelle speranze che il Fascismo aveva comunque suscitate; ne è un esempio Ferrara ferita (1941), una tela allegorica che se non piange le non ancora avvenute distruzioni dei bombardamenti alleati, piange i tanti soldati ferraresi caduti sui vari fronti europei e africani. Anche gli anni Cinquanta furono segnati, nel vortice dei cambiamenti del dopoguerra, dall’idea del “paradiso perduto”, dello sradicamento di valori millenari in favore di una società industriale e consumistica. Funi si mantiene tuttavia fedele al suo ideale classico, esaltando la morbidezza dei corpi e lasciando la geometria a sporadiche nature morte.
L’affresco e il mito di Ferrara
Il rapporto di Funi con la sua città natale si è probabilmente sublimato nel grandioso ciclo di affreschi realizzato fra il 1934 e il 1937 su commissione dell’amministrazione comunale, per la Sala dell’Arengo del Palazzo Municipale. La mostra propone diversi bozzetti preparatori che ripercorrono la storia della città secondo i i miti le leggende di grandi autori quali l’Ariosto e il Tasso: ne scaturisce una Ferrara eroica e passionale, in un certo senso in linea con l’immagine che Mussolini voleva dell’Italia. Dei e guerrieri, angeli e santi, sono immortalati secondo i canoni della possente statuaria greco-romana, traboccante virilità cui Funi aggiunge un delicato spirito poetico venato di elegia. La lezione rinascimentale dell’Officina Ferrarese riecheggia comunque, in particolare nell’eleganza dei volti.. L’adesione al Fascismo nel 1919, e i successivi contatti con Novecento e la Sarfatti, agevolarono la carriera di Funi, con numerose commissioni pubbliche (e la cattedra sull’affresco a Brera), nelle quali profuse il suo senso del classico, apprezzabile in bozzetti come La povertà o Annunciata, in cui la lezione rinascimentale è arricchita da un senso di drammatica grandiosità.
Niccolò Lucarelli
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