Nell’atelier di Pellizza da Volpedo. Alle origini del Quarto Stato
Una nuova puntata della serie di contenuti che ci portano nei grandi studi d’artista. Andiamo a Volpedo, città natale del pittore Giuseppe Pellizza, per visitare il suo atelier ottocentesco, a pochi passi dalla piazza dove ambientò il Quarto Stato
Simbolo della lotta operaia, il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo (Volpedo, 1868 – Volpedo,1907) è uno dei capolavori che ha accompagnato la storia e lo sviluppo della società italiana. A partire dal secondo Dopoguerra, l’opera divenne un autentico manifesto visivo dell’allora neonata Repubblica democratica. Acquistato nel 1920 dal Comune di Milano, oggi la “tela grande” (293 x 545 cm) si può ammirare alla Galleria d’Arte Moderna, in un nuovo allestimento inaugurato nel 2022. Ispirato dalla protesta di alcuni lavoratori, sin dalle prime due versioni (Ambasciatori della fame del 1891-92; Fiumana del 1895-95) Pellizza collocò la celebre manifestazione operaia in Piazza Malaspina a Volpedo – oggi intitolata Piazza Quarto Stato in suo onore – e scelse di far posare gli abitanti del posto come modelli.
A pochi passi dalla piazza tanto cara ai volpedesi, Pellizza allestì il suo atelier in via Rosano, nel retro della casa di famiglia. Costruito per volere dell’artista nel 1888, lo studio fu successivamente ampliato fino ad assumere, nel 1896, l’attuale veste con l’ampio lucernario zenitale. Nel 1966 fu donato dalle due figlie al Comune di Volpedo, per poi essere ufficialmente riaperto al pubblico nel 1994. A raccontarci la sua storia è Aurora Scotti, direttrice scientifica dei Musei di Pellizza e massima esperta dell’artista.
Intervista ad Aurora Scotti
Cesare Pavese – anche lui piemontese come Pellizza – scriveva che “Un paese ci vuole, non fosse per il gusto di andarsene via”. Pellizza se ne va, ma poi decide di tornare. Come mai?
Sì, proprio così. Pellizza sentì la necessità di lasciare Volpedo per cercare di perfezionare il più possibile non solo la sua preparazione tecnica, ma anche la sua cultura generale. Il confronto con la letteratura, la storia e la filosofia ha sicuramente arricchito il modo con cui l’artista ha potuto affrontare la sua opera. Ma, allo stesso tempo, pensava anche che il suo compito fosse quello di rimanere nel borgo natio, dove poteva coniugare al meglio i valori universali con quelli che erano i modi di vivere di un nucleo non cittadino. Proprio a Volpedo iniziò ad interessarsi ai lavori dei suoi compaesani – non necessariamente faticosi come quello del contadino – e agli aspetti quotidiani della vita del tempo. Un elemento decisivo per questa scelta, però, fu proprio quello della natura volpedese. Pellizza era affascinato dal mutare delle giornate, delle stagioni e degli anni. Questa ciclicità nella storia sottolinea il costante ripetersi e rinnovarsi delle esperienze umane, portando ad un aumento della consapevolezza della vita stessa. La natura, con il suo susseguirsi di stagioni, offre l’opportunità di riflettere sui cambiamenti che avvengono nel nostro ambiente. È proprio questo ciclo di rinascita continua che fornisce il contesto ideale per lo sviluppo e l’espressione del lavoro umano.
E realizza il suo capolavoro.
Il fatto che il dipinto del Quarto Stato sia stato realizzato a Volpedo ha un grande significato. Sebbene uno sciopero ambientato in una città avrebbe potuto coinvolgere più partecipanti, l’artista ha scelto di rappresentarlo nella piazza del suo paese, conferendo così una dignità straordinaria ai suoi modelli e presentando al meglio la loro vera vita e fisicità. L’intento era quello di promuovere la consapevolezza e il riconoscimento dei diritti di tutti gli uomini e delle loro capacità di agire positivamente nella società. Pertanto, lo sciopero diventa un modo per testimoniare anche le potenzialità umane, in quanto accanto al lavoro è importante coltivare anche la propria preparazione intellettuale. Partecipare ad uno sciopero con consapevolezza, e non ricorrendo alla violenza e ai forconi, implica aver ragionato e riflettuto per difendere i valori fondamentali dell’umanità. È proprio questo processo mentale che giustifica la sua volontà di rimanere nel paese natale e di vivere in armonia con la natura.
Una volta tornato a Volpedo inizia subito a dipingere nel suo atelier?
Sì, si trasferì immediatamente in via Rosano, dove la famiglia viveva da tempo. Ma all’inizio il suo studio aveva una configurazione diversa. Più che l’atelier come lo conosciamo oggi, era una stanza che lui reclamava come spazio in cui poter lavorare alle sue opere, sicuramente più piccola e meno alta. Tuttavia, con il passare del tempo e la crescente fama, sentì la necessità di uno spazio che gli consentisse di offrire una visione complessiva della propria opera a chi lo visitava.
E quindi che succede?
Iniziò a costruire il suo nuovo atelier da solo, creando un accesso diretto dalla propria casa. Poi cominciò a dipingere quadri di grandi dimensioni, rendendo necessario ampliare e trasformare lo studio in un vero e proprio luogo di lavoro e di relazioni sociali. Durante i lavori di restauro, abbiamo riscoperto una fascia architettonica che era stata nascosta, e abbiamo ripristinato il colore originale che lui aveva scelto, rimuovendo a bisturi le sovrapposizioni successive. L’artista aveva optato per una tonalità di terra di Siena tendente al bruno, e anch’io mi chiesi il motivo di questa scelta. Ma poco dopo, ho capito che questo fondo scuro metteva in risalto magnificamente la luminosità delle sue opere. Quindi, forse proprio un fondo neutro, anche se di colore marrone scuro, era perfetto per esaltare la bellezza dei dipinti di Pellizza.
L’atelier di Giuseppe Pellizza da Volpedo
La luce proveniva soltanto dalle finestre?
Non solo. Per potenziare la luminosità dell’interno dello studio, Pellizza fece aprire sul soffitto un grande lucernario, per il quale disegnò egli stesso il telaio. Il lucernario consentiva di ottenere nell’atelier una condizione di luce analoga a quella delle sale di esposizione, mettendo l’artista in condizione di verificare gli effetti finali delle sue opere; ma consentiva anche di godere del confronto diretto con una luce zenitale capace di esaltare la tersità dei colori nelle condizioni predilette dalla pittura divisionista.
Che cosa si è conservato oggi dello studio originale?
Quasi tutto. Ci fu la fortuna che il patrimonio pellizziano non fu mai disperso. Sono stati conservati sia tutte le tavolozze e tutti i suoi colori, il cavalletto e anche i libri a lui cari. Questo è stato importantissimo perché ci ha permesso di comprendere meglio l’evoluzione tecnica della pittura di Pellizza, la sua vita e il suo processo creativo. Per quanto riguarda l’organizzazione dello studio, Pellizza era solito utilizzare la lunga scala a pioli per raggiungere gli scaffali più alti della libreria, un arredo che ancora oggi è presente. La stufa Warm Morning, acquistata nel 1901, svolgeva un ruolo fondamentale nel mantenere la stanza calda durante i rigidi mesi invernali. Ancora oggi conserviamo alcuni modelli in gesso, originariamente acquistati da Pellizza durante i suoi anni di studio all’Accademia di Brera, che gli permettevano di continuare ad esercitarsi anche dopo il suo ritorno a casa. Su un pannello di legno sono visibili le prove di colore su tela fatte dall’artista, utilizzate per testare la resistenza al calore e alla luce solare dei colori Lefranc. La paratìa lignea (probabilmente costruita da Pellizza nel 1896), nella forma e dimensioni originarie (che non ci sono note), doveva essere il limite di uno spazio in cui riporre telai o rotoli di tele, ma poteva anche rispondere alla necessità di avere uno spazio protetto dalla luce che poteva anche essere utilizzato per tentare prove di stampa di fotografie.
E sono esposte anche alcune sue opere?
In origine, nello studio, c’erano semplicemente i ritratti dei genitori e il ritratto della sorella, oltre ad alcuni disegni. Nel frattempo, siamo riusciti ad arricchire la nostra collezione. Negli anni, abbiamo acquistato opere e alcune ci sono state prestate in comodato d’uso. Così, piano piano, il museo si è arricchito di opere di Pellizza e ora siamo in grado di mostrare lo sviluppo della sua pittura, dall’inizio della sua formazione fino all’approccio al divisionismo, includendo nella collezione anche il suo primo esperimento divisionista.Gabriele Cordì
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