Ecco perché quella sul Futurismo a Roma è una mostra frammentaria 

La professoressa di Storia dell’arte contemporanea dell’Università di Palermo Gabriella De Marco ci dice la sua sulla mostra “Il tempo del Futurismo” alla GNAMC. Una recensione completa, che fa luce sulle grandi assenze dell’esposizione romana

Fare una mostra, è cercare amici e colleghi per la battaglia” scriveva, se ricordo bene, Edouard Manet.  Le parole del grande artista francese mi sono tornate in mente in occasione della mostra Il tempo del Futurismo inaugurata di recente, per la cura di Gabriele Simongini, alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Una mostra di cui si è discusso molto, prima ancora della sua inaugurazione, e preceduta, come è ormai noto, da articoli, inchieste giornalistiche, prese di posizione, talvolta palesemente aprioristiche e che non starò su queste pagine a ripercorrere. Più proficuo mi appare, a mostra inaugurata, intervenire nel dibattito critico in corso a partire dal dispositivo curatoriale adottato.  

Boccioni alla mostra del Futurismo. Foto GNAMC
Boccioni alla mostra del Futurismo. Foto GNAMC

Sul metodo della curatela e della storia dell’arte 

Proporrò su Artribune, dunque, una riflessione sul fare storia dell’arte centrata sulla comunicazione culturale dell’esposizione romana indipendentemente dal catalogo pubblicato da Treccani editore che, in questo contesto, non prenderò in considerazione. Così come non mi soffermerò sugli effetti dell’onda lunga del movimento in molta sperimentazione artistica dagli anni della ricostruzione, dopo il secondo conflitto mondiale. Il mio sarà, quindi, un ragionamento sollecitato a partire dall’itinerario sul Futurismo proposto, sino al 28 febbraio del 2025, alla GNAMC.  
Ciò sulla base di alcune evidenze quali, naturalmente, l’esposizione ed il suo allestimento, unitamente alla conferenza stampa del 2 dicembre del 2024, divenuta un vero e proprio esempio di uso pubblico della cultura. Ma questo, e sgombro subito il campo da facili equivoci e fraintendimenti, non deve stupire perché fa parte dei meccanismi presenti in ogni democrazia e volti, pur se con modalità differenti, alla costruzione e alla ricerca del consenso. Altrettanto, non deve stupire, nelle dinamiche delle pur perfettibili democrazie, l’esistenza di un’opinione pubblica che, sulla scia di Georg Simmel, si fa massa critica. (Invio al mio: Costruire il consenso. Architettura, spazio urbano e committenza nell’Europa contemporanea in: “Epekeina”,7(1-2) 2016, pp.1-13; L’Ara Pacis di Augusto e la campagna per le elezioni amministrative del 2006 del Comune di Roma, “ClassicoContemporaneo”, 4, 2018). I comunicati, le conferenze stampa e oggi il web, come altre forme di comunicazione pur se fonti labili, sono preziose per lo storico perché luogo reale, concreto, delle pratiche sociali e quindi meno astratto, paradossalmente, dei grandi contesti economici o unicamente istituzionali. Al tempo stesso, come ogni storico dell’arte sa, non è da sottovalutare il rapporto che in ogni mostra si vuole stabilire con lo spettatore; una relazione dove la mediazione e la semplificazione tendono, sempre più spesso, a prevalere sull’educazione all’esercizio della curiosità. Esistono, infatti, citando liberamente Carlo Ludovico Ragghianti, tante storie dell’arte di cui ogni curatore deve assumersi la responsabilità. 

Il tempo del Futurismo 1909 -1924, Installation View, Ph LP
Il tempo del Futurismo 1909 -1924, Installation View, Ph LP

La mostra sul Futurismo alla GNAMC di Roma  

Una mostra “politica”, per tornare a Il tempo del Futurismo intesa nell’accezione etimologica del termine, e dal forte impatto mediatico come si addice, del resto, all’argomento di cui si occupa; ovvero, la prima avanguardia italiana del XX Secolo, sorta di propulsore e catalizzatore di molta sperimentazione europea, come scriveva, nel 1994, Luciano De Maria in Marinetti e i Futuristi (Garzanti Editore).  Alla luce di queste premesse e, indipendentemente dalle aspettative e dai risultati raggiunti, l’esposizione romana attiva una serie di interessanti spostamenti di senso che sollecitano riflessioni e curiosità. E questo può ritenersi, nonostante gli esiti, già un buon risultato.  

Presenze e assenze della mostra sul Futurismo 

Circa 350 opere provenienti dalla sede ospitante, da musei nazionali, da collezioni private e da alcuni musei internazionali, con lavori di artisti tra i quali ricordo soltanto Balla, Boccioni, Benedetta Cappa Marinetti, Carrà, Depero, Drudeville, Fillia, Prampolini, Russolo, Romani, Severini, Tato, costituiscono un valido motivo per apprezzare, tralasciando ogni obiezione, le ragioni di questa mostra, nonostante alcuni sbilanciamenti nella scelta delle opere e delle presenze. Basterebbero da soli Tre donne e il Trittico degli stati di animo di Boccioni, Lampada ad arco di Balla, La rivolta di Russolo, Funzione architettonica di Ivo Pannaggi o il film Velocità realizzato, nel 1930, da Tina Cordero, Guido Martina, Pippo Oriani per suggerire una visita alla Galleria romana. Predominante Giacomo Balla, personalità centrale non solo rispetto al contesto italiano, sebbene privo di alcuni “testi” importanti. Meno rappresentati, a mio avviso, sul fronte delle opere, nomi storici della compagine definita, ai primordi della storiografia sul movimento, come il “primo Futurismo”, quali Umberto Boccioni, Carlo Carrà e Gino Severini. Inoltre, dal percorso espositivo non si evince, per proporre qualche esempio, il ruolo di tramite svolto da Severini tra l’Italia e la Francia, così come non è messa in luce l’azione culturale di Enrico Prampolini presso i circoli di avanguardia dell’Europa di quegli anni. Né basta a chiarirne gli scambi il Nudo che scende le scale n.1 di Duchamp, proveniente dal Philadelphia Museum of Art o la rivista “Noi”, diretta dal modenese con Bruno Sanminiatelli in bacheca o Box-R-Bild, un olio, legno e collage del 1921 di Kurt Schwitters. 

Il tempo del Futurismo 1909 -1924, Installation View, Ph LP
Il tempo del Futurismo 1909 -1924, Installation View, Ph LP

Dov’è finito Futurismo internazionale? 

Mal percepita è, infatti, la dimensione e diffusione internazionale del movimento su cui in conferenza stampa, si è, invece, con trionfalismo insistito; basti pensare a  Severini, Prampolini, Bragaglia, Paladini, Ruggero Vasari, oltre, naturalmente, allo stesso Marinetti. Assenti quelle personalità di confine formatesi con i futuristi della prima ora e che hanno svolto, come sorta di fiancheggiatori, un’importante azione di traduzione culturale tra la sperimentazione italiana e la cultura del Nord Europa. Sarebbe bastata qualche eloquente integrazione con materiale documentario offerto da fotografie, carteggi, e riviste dell’epoca per restituirne il clima.  Già Mario Verdone, per proporre un esempio, scriveva di una fotografia scattata a Düsseldorf, nel 1922, dove l’artista siciliano Ruggero Vasari è ritratto insieme a Van Doesburg, Hans Richter, Lazlò Moholy Nagy, El Lissitskij. Non certo uno scatto casuale dal momento che Vasari fu molto attivo in Austria e Germania, dove fondò il periodico “Der Futurismus”. L’artista fu, inoltre, collaboratore di “Der Sturm” e amico del suo fondatore Herwart Walden. Un’ occasione mancata non al fine di stabilire primati, ma per rileggere la storia della libera circolazione delle idee e della creatività nell’Europa di quegli anni. Ne risulta una visita dove non si ha nozione dei rapporti strettissimi con la Francia, dell’esistenza del Vorticismo inglese, del Futurismo in Belgio, dei contatti con il dadaismo svizzero, delle strette connessioni con la Grande Russia divenuta poi Unione Sovietica. Lo stesso può dirsi della diffusione e propaganda delle tematiche del movimento oltreoceano.  

Un problema di curatela 

Delle assenze che pesano sulla mostra romana quali quella del corleonese Pippo Rizzo, si è scritto con rilievi circostanziati e di cui cito, soltanto, i molti interventi su Artribune, la recensione di Alberto Dambruoso e quella su Finestre sull’Arte del 4 dicembre di Federico Giannini. Ciononostante, il problema non risiede, a mio avviso, e qui son d’accordo con Simongini, nello stilare una lista “di chi c’è o chi non c’è” quanto nell’impostazione del percorso espositivo proposto. Non basta, dunque, rinviare ai contributi in catalogo e alle novità di lettura che il volume propone, proprio perché si tratta di momenti separati. Un conto è una pubblicazione sul Futurismo, altro è allestirne una mostra: altrimenti si rischia di proporre un appuntamento espositivo che vada nella direzione opposta rispetto all’intenzione iniziale di carattere, come dichiarato, apertamente divulgativo. Il pericolo, sempre in agguato, è quello di rivolgersi, nonostante i propositi ma senza le necessarie comparazioni, solo ad una ristretta cerchia di iniziati. 

Il Tempo Del Futurismo. Foto di Emanuele Antonio Minerva e Agnese Sbaffi, Ministero della Cultura
Il Tempo Del Futurismo. Foto di Emanuele Antonio Minerva e Agnese Sbaffi, Ministero della Cultura

L’assenza del Futurismo meridionale 

Manca, inoltre, la percezione di ciò che è stato un vero e proprio punto di forza del movimento, perché espressione della visione moderna, programmatica, attivista, politica del suo fondatore, dei dinamici protagonisti e dei “fiancheggiatori”.  
Mi riferisco a quella che si può definire come una geografia della diffusione capillare e regionale del Futurismo in Italia e, dunque, alla capacità di coniugare l’ambizione internazionale con la territorialità. Penso, tra i molti casi possibili, all’area meridionale con una spiccata preminenza, come già osservava Enrico Crispolti, della Campania e della Sicilia. Quella siciliana, è sin dagli esordi, una grande area del Futurismo, ricca di connessioni nazionali e internazionali sia nelle forme letterarie (riviste, tavole parolibere, serate) sia in quelle squisitamente artistiche, teatrali e cinematografiche. Basti pensare al citato Rizzo a Vittorio Corona, Ruggero Vasari, Varvaro per ricordare solo qualche nome, a cui si aggiungono presenze femminili quali Clelia Adele Gloria, Rosita Lo Jacono, Luigia (Gigia) Zamparo Corona se ricordo bene non documentate in mostra (del drappello delle futuriste ne scrive Ida Mitrano in catalogo). Nessun approfondimento, per ragionare sui grandi temi del Futurismo, alle Case d’arte, veri e propri avamposti di sperimentazione e creatività, nonostante i testi in catalogo di Elena Gigli e Mitrano. Luoghi del fare che hanno contribuito a lasciare tracce importanti nel tessuto urbano delle nostre città. (G. De Marco, Intuitivo. Il teatro Sperimentale degli Indipendenti, Anton Giulio Bragaglia, le Terme dette di Settimio Severo e la juta, in Libro d’arte biodiverso. Parole e immagini tra estetica, arte e ambiente, a cura di E. Di Stefano, D. Mantoan, Bisso edizioni, 2024. Interpretazioni grafiche di Laura Pitingaro). 

Le altre mostre sul Futurismo 

Quanto rilevato mi spinge a ritornare su ulteriori approfondimenti in relazione ad alcune affermazioni fatte in conferenza stampa: Il tempo del Futurismo non è la prima mostra sull’argomento né in Italia né all’estero e non costituisce, di per sé, una novità. Basti pensare, per dissipare ogni dubbio, a Twentieth Century Italian Art curata da Alfred Barr Jr e Jones T. Soby, nel 1949, al MoMA di New York e, ancor più circostanziata, a Futurism, tenutasi, nel 1961, per la cura di Y. C. Taylor al MoMa di New York; e tralascio le iniziative più recenti tra le quali ricordo quelle al Guggenheim di New York nel 2014 e, nel 2023, a Otterlo. Un passaggio ineludibile, quello della memoria storiografica, che non può essere sottovalutato anche nel rispetto dell’ormai “mitico” pubblico non specialista che spesso s’invoca.  Ne consegue che non è pertinente parlare, in occasione della mostra romana, di una “riscoperta” del movimento fondato da Marinetti. Corre l’obbligo, dunque, alla luce di questi cenni fare alcune, seppur sintetiche, precisazioni, pur chiedendo scusa al lettore per l’elenco di nomi su cui gravano comprensibilmente, inevitabili quanto colpevoli omissioni. 

Il Tempo Del Futurismo. Foto di Emanuele Antonio Minerva e Agnese Sbaffi, Ministero della Cultura
Il Tempo Del Futurismo. Foto di Emanuele Antonio Minerva e Agnese Sbaffi, Ministero della Cultura

Il Futurismo come materia di studio 

Il Futurismo è stata una galassia attraversata, negli anni, da gruppi abitati da singole personalità e caratterizzata, come ogni avanguardia, da adesioni, rotture, riappacificazioni e i cui confini si riconfigurano continuamente a seconda degli anni e dei punti di vista. Un universo culturale che si studia da tempo nelle accademie e nelle aule delle università non solo italiane e su cui si sono formate, e ancora si formano, generazioni di ricercatori, compresa la mia. Questo grazie, soprattutto, a studiosi, quali tra i molti, Par Bergman, Paola Barocchi, Maurizio Calvesi, Umberto Carpi, Germano Celant, Anne Coffin Hanson, Enrico Crispolti, Luciano De Maria, Mario De Micheli, Renzo De Felice, Giovanni Lista, Maurizio Fagiolo dell’Arco, Emilio Gentile, Pontus Hultèn, Carlo Ludovico Ragghianti, Mario Verdone, Glauco Viazzi, che ne hanno colto, in tempi non sospetti, l’audacia visionaria e la complessità. Un lungo e continuo lavoro di scavo, di scandaglio, di letture incrociate tra opere, fonti dirette e indirette e in dialogo costante con i contributi di area francese e anglosassone che già da tempo aveva orientato la luce dei riflettori sui molti aspetti del movimento. Un paziente, quanto certosino, lavoro di studio, a cui si aggiunge quello delle generazioni più giovani e oggi pienamente mature (tra cui ricordo, in ordine sparso, Claudia Salaris, Ester Coen, Matteo D’Ambrosio, Daniela Fonti, Fabio Benzi, Günter Berghaus, Marta Braun, Vivien Greene, Roger Griffin, Jeffrey Schnapp, Flavio Fergonzi, Ilaria Schiaffini, Alessandro del Puppo, Maria Elena Versari, Elena Gigli, Raffaele Bedarida e io stessa). Una lista destinata ad ampliarsi accogliendo le nuove, quanto proficuamente agguerrite, generazioni di ricercatori.  

Le banche dati per lo studio del Futurismo 

Al profilo e al metodo del singolo studioso si intersecano, nell’ampia costellazione delle discipline umanistiche, già dalla metà degli Anni Novanta del secolo scorso, veri e propri consorzi di studio e di ricerca che hanno contribuito a creare nel tempo, grazie all’individuazione, selezione e costruzione delle fonti, banche dati ormai disponibili on line. Banche dati pensate ormai con una fruizione in modalità mista che consentono la consultazione di materiali fino a pochi anni fa incompleti e disseminati tra biblioteche e collezioni private. Documenti utili, anche, per il reperimento e l’individuazione di un apparato documentario ineludibile per la ricostruzione delle vicende dell’arte del XX Secolo e per un allestimento circostanziato delle mostre. Preziosa alleata per ogni indagine sul Futurismo e sulle aree limitrofe è, tra le molte consultabili, come è noto, la banca dati del Mart, con cui ho collaborato come consulente scientifico per il riordino del Fondo Gino Severini o il consorzio degli Archivi del Novecento del sistema archivistico nazionale; mentre consiglio  a chi vuole “varcare” l’oceano, le collezioni del Futurismo della Research Library del Getty Institute e la Beinecke Rare Manuscript Library dell’Università di Yale che acquisì, negli Anni Settanta del secolo scorso, le carte di Filippo Tommaso  Marinetti. Un’occasione mancata, questa, da parte delle istituzioni italiane del tempo, probabilmente perché prematura per il contesto italiano. Io stessa ne scrissi sulle pagine dell’Unità nel 1997 (Archivi da slegare. Liberateli e metteteli in rete) ritornando, in seguito, sull’argomento su Artribune del 4 febbraio 2020.  
Tra le piattaforme digitali ricordo, sebbene attualmente in manutenzione, e certamente non comparabile con i “giganti” appena ricordati, Agave. Contributo allo studio delle fonti della cultura umanistica del Novecento di cui sono stata responsabile scientifico, già dalla prima metà del Duemila, per l’Università di Palermo. Un ambiente online arricchito da una banca dati che comprendeva una sezione denominata Fototeca digitale e una dedicata agli articoli sul Futurismo nelle pagine del quotidiano palermitano L’Ora, con interessanti anticipazioni del primo manifesto pubblicato il 20 febbraio del 1909, su Le Figarò. Uno spazio accessibile a tutti, frutto dello spoglio di oltre 25 mila schede catalografiche con 13 voci di interrogazione e di cui 5mila selezionate per una fruizione on line. Una ricerca, in parte fortunatamente preservata, perché pubblicata tra il 2007 e il 2011 da Silvana editore in due volumi, a mia firma.  

Altri strumenti per gli studiosi del Futurismo 

A questo elenco di nomi e fatti a cui se ne potrebbero aggiungere molti e significativi altri legati alla polemica recente, va inclusa, come irrinunciabile omaggio al genere, la pubblicazione fondamentale, del 1958, degli Archivi del Futurismo a firma di Maria Drudi Gambillo e Teresa Fiori definita da Crispolti come punto di partenza imprescindibile negli studi sul Futurismo (Nuovi Archivi del Futurismo, diretti da E. Crispolti, De Luca Editore, Roma 2010). Ricordare o, semplicemente, accennare in sede di conferenza stampa, a questi come ad altri precedenti storiografici, non solo avrebbe conferito valore aggiunto all’esposizione non sottraendo nulla all’iniziativa, ma le avrebbe dato spessore e corposità sul fronte scientifico eliminando, inoltre, molte perplessità. Ma non solo: la modernolatria futurista, ovvero quel filo avvincente che lega la sperimentazione futurista alla scienza e alla tecnologia e che costituisce il taglio, il cuore pulsante di questa mostra non è una novità – e da tempo – negli studi e nelle mostre sul Futurismo e sulle avanguardie storiche del Novecento.  
Ancora Enrico Crispolti, già, nel 1969, nel Mito della macchina ed altri temi del Futurismo, pubblicato dall’editore trapanese Celebes, dedicava a questo appassionante argomento il corposo, quanto circostanziato e innovativo, volume.  
Successivamente, l’immaginario tecnologico, per citare un’efficace espressione di Berghaus, è stato, ed è ancora, oggetto di attenzione degli studiosi con tagli e letture via via sempre più aggiornati. Basti pensare a The spiritual in the Art. 1890-1985. Abstract painting tenutasi, nel 1986, tra gli Stati Uniti e l’Olanda, centrata sul tema della spiritualità. Una pagina a mio dire epocale sul fare storia dell’arte che affrontava le complesse quanto contraddittorie relazioni tra scienza ed empiria, tra religiosità e sapere scientifico. Io stessa me ne sono occupata anticipando alcuni miei studi sulle pagine di Artribune nel 2022 (6 settembre). Una proposta culturale, quella del 1986, che ha fatto sistema orientando, come una stella polare, gli studi delle generazioni successive sulle ricerche dell’arte astrazione, Futurismo compreso, come attestano tra i molti artisti, le opere di Balla, Romani, Prampolini e Anton Giulio Bragaglia. Intellettuale poliedrico, quest’ultimo, ancora una volta, anche nella mostra in corso alla GNAMC, inspiegabilmente “sotto dimensionato” (invio al mio: Esporre gli archivi del ‘900. Anton Giulio Bragaglia, l’archivio di un visionario. Riflessioni intorno ad una mostra, “Fermenti” a. LII, n.254).  

Il Tempo Del Futurismo. Foto di Emanuele Antonio Minerva e Agnese Sbaffi, Ministero della Cultura
Il Tempo Del Futurismo. Foto di Emanuele Antonio Minerva e Agnese Sbaffi, Ministero della Cultura

Il Futurismo e la tecnologia 

Giungo, dunque, al tema centrale de Il tempo del Futurismo: le connessioni tra il Futurismo, la scienza e la tecnica. Un vero e proprio “universo mondo” che attraversa la storia dell’umanità e, in particolare, l’età moderna e contemporanea. Interessante la finestra su Guglielmo Marconi pur se con troppe generalizzazioni; bene, sebbene non nuova, anche l’idea di esporre macchine ed apparecchi; ciononostante, l’impianto espositivo risulta riduttivo perché promette al visitatore un viaggio che si prospetta avvincente ma che poi si smorza, si perde, nel percorso della visita. Sarebbe stato auspicabile soffermarsi con maggiore approfondimento su Balla e il suo dirompente e complesso capolavoro del 1914, qual è Mercurio transita davanti al sole visto al telescopio o su Prampolini, autore di Moto dell’elettrone o Quanta A o sul messinese Ruggero Vasari personalità pienamente inserita nell’avanguardia artistica internazionale e autore, nel 1923, de L’angoscia delle macchine, rappresentata nel 1927 con musiche di Silvio Mix. Un dramma moderno, che anticipa Metropolis di Fritz Lang, centrato sullo spettro dell’uomo meccanizzato e tra le cui fonti c’è Jarry e R.U.R (Rossum’s Universal Robots) del ceco Čapek. Un tema, quello della fantascienza poi diffuso a molte latitudini e che la mostra avrebbe dovuto documentare, pensando proprio “all’onda lunga del Futurismo”. 

Il Tempo Del Futurismo. Foto di Emanuele Antonio Minerva e Agnese Sbaffi, Ministero della Cultura
Il Tempo Del Futurismo. Foto di Emanuele Antonio Minerva e Agnese Sbaffi, Ministero della Cultura

Il Futurismo e la scienza moderna 

Troppo brusco, se non superficiale e liquidatorio appare il passaggio dall’immaginario tecnologico ai nostri anni; l’impressione è che la carta dell’intelligenza artificiale generativa, ormai sempre evocata, sia una facile quanto prevedibile scorciatoia pensata per stupire il pubblico con gli effetti speciali.  
Un argomento titanico, sicuramente complesso, quello tra arte, scienza e tecnologia, quanto ambizioso, non facilmente governabile e che nessun curatore potrebbe affrontare da solo. Ma, soprattutto, pesa l’assenza, nell’itinerario futurista della GNAMC, dei necessari riferimenti ai fondamenti epistemologici che hanno guidato il delinearsi della scienza moderna. In tal modo il pubblico non specialista saprà poco, se non da passi in catalogo, del pensiero filosofico di Henry Bergson, della quarta dimensione, dell’applicazione dei raggi X che permettevano di “fotografare l’anima”, della geometria non euclidea e di Henri Poincaré, né troverà alcuna indicazione e/o confronto con alcune fonti quali Georges Sorel, Nietzsche, Rudolf Steiner, Verhaeren. Né, soprattutto, avrà nozione di quell’ampio diffondersi Europa e in America dell’irrazionalismo, che come una febbre ossessiva e in reazione allo scientismo, diede vita ad associazioni dedite allo spiritualismo, all’occultismo, a circoli esoterici volti a promuovere la teosofia e di cui l’Italia, con Roma, è stata epicentro tra i più interessanti (De Marco, Artribune, 6 settembre 2022).  

Futurismo alla GNAMC una mostra frammentaria 

Sono consapevole che le mie obiezioni prevedono la realizzazione di una mostra faraonica nei costi e negli sforzi; ed è proprio per questa ragione che il taglio curatoriale andava mirato nello spazio e nel tempo, al fine di rendere quella visione d’insieme che nell’esposizione romana appare per frammenti. 
Ma, soprattutto, ciò che a mio avviso è mancata, è un’idea innovativa del fare storia dell’arte. Certo, preciso, non esiste un obbligo di innovatività, né è detto che l’originalità a tutti i costi sia sempre sinonimo di rigore e di qualità; eppure, sono convinta che il punto di vista allargato, il dialogo con altre discipline e non solo umanistiche che porti ad un lavoro di squadra, visibile già nella costruzione del dispositivo mostra e non demandato ai pur fondamentali cataloghi, unitamente all’irrinunciabile analisi storiografica  non solo estetizzante, avrebbe giovato all’impianto complessivo apportando un ulteriore contributo non solo agli studi sul Futurismo. Indipendentemente dagli elenchi sulle presenze e sulle assenze e pur comprendendo le ragioni del curatore, quello che manca è il contesto della storia
Il punto di vista adottato è legato ancora ad un fare storia dell’arte di tipo gerarchizzante basato, fondamentalmente, sulla nozione di capolavoro e sul primato della pittura. Un’ impostazione anche apprezzabile, godibile, ma a mio avviso superata e che stride proprio in considerazione delle peculiarità di quel movimento. Mi riferisco alla multimedialità, multimodalità e interdisciplinarietà dell’avanguardia futurista, per cui appaiono ancora più incomprensibili le assenze o labili presenze di settori quali il teatro, il cinema, la musica, la moda, la grafica, la fotografia, l’architettura, l’urbanistica, l’arte pubblica, l’arte postale, l’illustrazione, la grafica, l’immaginismo. 

Il Tempo Del Futurismo. Foto di Emanuele Antonio Minerva e Agnese Sbaffi, Ministero della Cultura
Il Tempo Del Futurismo. Foto di Emanuele Antonio Minerva e Agnese Sbaffi, Ministero della Cultura

Il Futurismo non fu solo pittura e scultura 

Basterà ricordare le polemiche animose promosse dai futuristi (tra cui Marinetti, Corra, Settimelli, Vasari) in tutta Europa per affermare il primato futurista nella rivoluzione della scena attraverso i drammi sintetici, la luce psicologica (ancora un immaginifico Balla), l’intuizione fulminea, la disposizione anti-veristica, alogica, anti-psicologica, il teatro teatrale (Anton Giulio Bragaglia). Né la sezione finale della mostra dedicata a coloro che dagli Anni Cinquanta del Novecento hanno guardato al Futurismo contribuisce a chiarire queste lacune. Utili gli interventi in catalogo di Berghaus e Veroli purtroppo separati, a mio dire, dal percorso espositivo.  
Innovativa sul fronte del metodo e del taglio, ancor più perché supportata da un solido impianto filologico, è stata la mostra Signac collectionneur tenutasi al Museo D’Orsay di Parigi tra il 2021 e il 2022 per la cura di Marina Ferretti Bocquillon e Charlotte Hellman (Catalogo Edizioni D’Orsay, Gallimard, Parigi 2021). Un’esposizione centrata non sull’opera del grande artista ma sulla sua preziosa e eloquente collezione privata, ricostruita, anche, mediante un paziente lavoro di indagine archivistica condotto sugli inventari.  

Il Futurismo e il suo tempo 

Infine, e mi avvio alla conclusione, l’occhio del critico d’arte si intreccia, necessariamente, con la storia:1909- 1944 è l’arco cronologico che abbraccia l’esperienza futurista. Un ampio periodo segnato da due guerre mondiali e il colonialismo, e che impatta proprio ai suoi albori, con la guerra italo-turca o di Libia intersecandosi, a seguire, con il ventennio. Un dato questo, a mio avviso non irrilevante e su cui apre, in catalogo, proprio il testo di Francesco Perfetti.  Così come non è irrilevante, ancor più in un’impostazione che vuol rifarsi alla storia sociale, non dare evidenza al tentativo di attuare in Italia tra il 1937 ed il 1938, sulla scia della Germania di Hitler, l’operazione arte degenerata. Il Futurismo non subì la stessa sorte cui furono soggette le avanguardie in Germania grazie, anche, all’opposizione di Marinetti (nel frattempo divenuto Accademico d’Italia) e di Mino Somenzi (direttore di Artecrazia) come dimostra l’ampio e teso dibattito che si levò nell’Italia di allora e a ridosso delle leggi razziali; sebbene vada sottolineato che l’attrito e il dissenso di Marinetti con il regime fu sempre collocabile, riguardo il fondatore del Futurismo, da una prospettiva fascista. Un dibattito ricostruito dagli storici (ancora Crispolti nel 1969, Giovanna De Lorenzi, nel 2008 e, oltre ad altri, Francesco Perfetti che ne accenna in catalogo) sia grazie alle testimonianze dirette, sia ai documenti di archivio e dalla vasta campagna di stampa. Un clima rovente cui presero parte, da posizioni opposte, protagonisti della cultura italiana di allora e che in una mostra intitolata al Tempo del Futurismo mi sarei aspettata di trovare. Una pagina della nostra storia che ripercorrere, se non rileggere alla luce dei nostri giorni, in un appuntamento espositivo che nasce con una forte vocazione didattica, sarebbe stato di grande utilità. 

La storia non va nascosta, ma esplicitata e studiata 

Vari, incandescenti e ricchi di contrasti e ambiguità sono gli snodi ineludibili che riguardano lo studio del secolo breve con cui gli storici dell’arte, che piaccia o no, devono fare i conti. Molti gli esempi sul fronte museologico: tra questi cito l’allestimento da me visitato nel 2020, del Museo Nacional Centro De Arte Reina Sofia di Madrid, che non ha rinunciato alla storia evidenziandone, al contrario, l’aspetto complesso e problematico di questa. Il dispositivo museologico adottato dall’istituzione madrilena e penso, in particolare, alla sezione Guernica e Guernica e il suo contesto integra la nozione di capolavoro di opere ormai entrate nel canone, quali la celeberrima Guernica di Picasso, con un punto di vista veramente plurale, molteplice, talvolta persino paradossale presente nelle sale attigue evidenziando le differenze, il dibattito, le tensioni di quegli anni e proponendo un’idea del fare storia dell’arte non unicamente estetizzata. Un esempio paradigmatico per l’arte contemporanea perché ha saputo valorizzare il rapporto tra fonti dirette e indirette, conciliando aspetti e letture diverse volte non a stupire, a “incantare” il fruitore ma a sollecitarne il senso critico e l’esercizio della curiosità. 
Infine, concludo sparigliando volutamente le carte, ricordando al lettore La Biblioteca di Dante un’esposizione tenutasi a Roma, tra il 2021 e il 2022, presso la Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana, per le cure e le diverse competenze di Roberto Antonelli, Ebe Antetomaso, Marco Guardo e Lorenzo Mainini. Un’occasione illuminante sul fronte del tema e del metodo anche per chi si occupa del XX Secolo, perché in grado di coniugare rigore filologico, inquadramento storico-critico, innovazione museologica, supporti digitali di varie modalità, con una chiarezza espositiva, sempre auspicabile. La Biblioteca di Dante è riuscita a non separare i momenti fondamentali nella fruizione di una mostra quali quello dell’osservazione e della conoscenza, dello studio e dell’approfondimento.  
Tutto questo nel parlare anche alle scuole e ai bambini. 

Gabriella De Marco 

 
 

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Gabriella De Marco

Gabriella De Marco

Gabriella De Marco è professore ordinario di Storia dell’arte contemporanea presso l’Università degli Studi di Palermo, dove insegna come titolare dal 1998. I suoi interessi di studiosa si sono focalizzati, nel tempo, principalmente sui rapporti tra arte e letteratura in…

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