Giovanni Chiaramonte: fotografare l’orizzonte
Giovanni Chiaramonte fotografa l’Emilia dopo il terremoto. Immagini di una terra drammaticamente ferita, la cui bellezza insepolta promette la rinascita. Mostra impeccabile, curata da Matteo Agnoletto nell’ambito del Festival Filosofia e passata poi a Milano, negli spazi di Villa Necchi Campiglio.
Chi ha vissuto l’esperienza del terremoto conosce sensorialmente una strana allitterazione temporale in cui kairos e kronos sembrano andare di conserva, abbracciati come se un istante potesse rallentare e un infinito essere lanciato in corsa. Il terremoto, per chi lo ha vissuto, è una condizione immanente: radica nell’interno, pochi centimetri sotto al cuore, dove lo sterno con una piccola fossetta lascia spazio all’addominale. Fuori la terra trema rifiutando le cose dell’uomo, tenta di scrollarsele dalla pelle come un piccolo fastidio di gocce d’acqua che non vogliono evaporare. Il contorno regolare, perfetto nella tensione superficiale delle gocce, improvvisamente si incrina spargendo il liquido in ogni direzione. Dentro, l’immanente vibrazione comprime le viscere riscoprendo un antico istinto latente, kairos agitato e tonante, kronos di macerie silenzioso, tra le croci di una chiesa sventrata e la stessa effige, ruotata, che si forma tra le finestre delle case a monito di fragilità.
Giovanni Chiaramonte e l’Emilia. Il fotografo è stato un esploratore delle pianure con Luigi Ghirri, e ben conosce il colore estivo di questa terra, diafano per l’afa insopportabile e ovattato di nebbia nell’inverno. Le sue immagini rinunciano a qualsiasi soluzione di continuità con la materia argillosa che l’uomo ha ordinato dai campi nei muri delle case, delle chiese, sotto la vigile e rassicurante presenza del cielo, debolmente celeste rifugio del trascendente.
Tra i due orizzonti, quello rossastro-bruno e quello di abbagliante foschia grigio-azzurra, qualche chiazza verde, verticale, nei contorni vivi di una roggia di Pioppi. Il legno ha sostituito le persone nella fissità del dramma, negli interni come negli esterni, tra alberi e arredi pagani, fino nei crocifissi. Chiaramonte ritrae l’Emilia rovinosa esplorandone la consistenza materica in un incessante movimento tra interno ed esterno, come l’avesse adagiata su un banco d’anatomia, per comprenderne il morbo. L’esercizio tuttavia rimane premuroso e restituisce la dolce bellezza di un ecosistema in cui le cose non sembrano ancora perdute, ma solamente incrinate.
Fotografia intensamente iconografica, come nella migliore tradizione italiana, immagini in cui perdersi per scoprire il dettaglio nascosto, un piacere concedersi il lungo movimento dello sguardo nella fotografia; è raffinata saggistica per gli occhi quella di Chiaramonte sulla perdita di fanciullezza di Emilia.
Saverio Cantoni
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