Fotografare, quant’è complicato. Un libro filosofico
L’editore è di quelli “accademici”: Raffaello Cortina di Milano. Per ciò non c’è da stupirsi che il volume di “Filosofia della fotografia” curato da Maurizio Guerri e Francesco Parisi sia un tomo che richiede attenzione e studio. Ma la panoramica che restituisce è ampia e articolata
L’ottica esteriore dipende da quella interiore e non viceversa
Ernst Jünger
La fotografia, intesa non soltanto come atto ostensivo, ma come dispositivo ottico in grado di orientare le nostre attitudini relazionali e influenzare le nostre pratiche conoscitive, per la sua pervasiva presenza e la sua ineludibile incidenza sulle nostre scelte estetiche, etiche e politiche, oggigiorno non è più soltanto oggetto di critica ma anche di filosofia. È questo il senso di Filosofia della fotografia: il volume, curato da Maurizio Guerri e Francesco Parisi, raccoglie saggi di autori, pensatori e critici di epoche e Paesi differenti, legati o meno al mondo della fotografia.
Considerato che “il gesto fotografico” possiede una struttura quantica, atomistica, con funzione conseguentemente, informativa è compito della filosofia della fotografia significarne le azioni seguendone i processi. Vilém Flusser sostiene che le “immagini fotografiche” si differenziano dalle “immagini tradizionali” in quanto “immagini tecniche”, ovvero prodotte da apparecchi, a loro volta prodotti dall’applicazione di testi scientifici (programmi). Pertanto si configurano come metacodici di testi la cui codifica avviene non nella testa dell’artista, ma all’interno di un black box. Se per comprendere un’immagine tradizionale occorre decodificare ciò che avviene nella testa dell’artista, nel caso dell’immagine tecnica è forse sufficiente decodificare ciò che avviene all’interno del black box? Secondo il filosofo praghese, l’universo fotografico simula l’universo cartesiano. Pertanto, a ogni fotografia corrisponde un elemento chiaro e distinto, il quale per l’appunto risiede negli apparecchi fotografici.
In virtù di questo rapporto biunivoco fra universo e programma (a ogni punto del programma corrisponde una fotografia, a ogni fotografia corrisponde un punto del programma), nell’universo fotografico gli apparecchi sono onniscienti e onnipotenti. Per la loro onniscienza e la loro onnipotenza devono pagare un prezzo molto caro, e cioè l’inversione dei vettori semantici. I concetti infatti non corrispondono più al mondo là fuori (come nel modello cartesiano); qui, invece, è il mondo a corrispondere al programma che c’è dentro gli apparecchi. O per meglio dire: non è il programma che significa la fotografia, ma è la fotografia che significa gli elementi del programma (concetti). Benché apparentemente sia frutto di un gioco di combinazioni automatico e programmato, l’universo fotografico possiede, tuttavia, un margine di libertà che nasce dal confronto (che è ora di lotta, ora di collaborazione) fra l’intenzione del fotografo e il programma dell’apparecchio. La critica fotografica, a parere di Flusser, deve porsi la seguente domanda: in che misura il fotografo è riuscito a sottomettere il programma dell’apparecchio alla propria intenzione e in qual altra l’apparecchio è riuscito a deviare l’intenzione del fotografo a favore del programma?
A capo dell’intenzionalità dell’autore e dell’imprevedibilità della macchina si trova il “feedback magico dell’immagine” o, come lo definisce Jean Baudrillard – riferendoci al brano antologizzato nel volume -, “lo statuto magico dell’immagine”. Questi nasce da un’illusione, la cui intensità, ricorda il filosofo e fotografo francese, è commisurata alla sua negazione del reale. “Fare di un oggetto un’immagine significa togliere a esso una a una tutte le sue dimensioni: il peso, il rilievo, il profumo, la profondità, il tempo, la continuità e ovviamente il senso. È a prezzo di questa disincarnazione che l’immagine acquista potere di fascinazione, che diventa medium dell’oggettualità pura, trasparente a una forma di seduzione più sottile”.
Oltre al concetto di “magia dell’immagine”, i due filosofi condividono pure il concetto di “inversione semantica” qui accennato nel caso diFlusser. Così si esprime Baudrillard a questo riguardo: “Nei festival, nelle gallerie, nei musei, nelle esposizioni, le immagini fanno scorrere messaggi, testimonianze, sentimentalità estetica, stereotipi di riconoscenza. È una prostituzione dell’immagine nei confronti di ciò che essa significa […]. Nella profusione delle nostre immagini la morte e la violenza sono dappertutto, ma sono però patetiche, ideologiche, spettacolari. Al posto dell’immagine che racchiude simbolicamente la morte, è la morte che si racchiude sull’immagine sotto forma esteriore dell’esposizione, del museo”.
Ernst Jünger sostiene che fra l’immagine e il mondo esiste una distanza tale da portarci a sviluppare una seconda coscienza, ovvero “una crescente capacità di vedere se stessi come ‘oggetti’” e, pertanto, “estranei alla sfera del dolore”. È, questo, un processo di “anestetizzazione” che per Ernst Bloch ci espone “alla alienazione e al perturbamento”.
Secondo l’analisi attenta e puntuale di Günther Anders, questo stesso processo ci porta alla costruzione di un “mondo menzognero”, un mondo in cui a forza di mentire la menzogna diventa verità e il reale diventa riproduzione delle proprie immagini. Il “ricordo”, quindi, quale attività legata agli stati d’animo, è stato sostituito dalle immagini, ma non più quelle della riproduzione mnemonica, bensì della riproduzione fotografica. Per Sigfried Kracauer si tratta di “pseudorealtà” e dell’incapacità di “esercitare una memoria autentica”, eppure nel suo pensiero non c’è pessimismo nei confronti delle immagini tecniche, se queste ci consentono di esorcizzare la paura che la realtà incute, inducendoci all’azione. Nel mito di Perseo, citato da Kracauer, l’eroe taglia la testa a Medusa guardandola non direttamente, ma attraverso uno specchio: la vera realtà è paralizzante.
La visione di due filosofi americani di matrice analitica, Roger Scruton e Kendall L. Walton, agli inizi degli Anni Ottanta sulle pagine della rivista Critical Inquiry, insieme con una sintesi convincente che, delle due posizioni, un decennio più tardi ne farà il filosofo britannico Gregory Currie, costituisce il cuore della seconda parte del libro. Scruton argomenta che, poiché la fotografia dipende dalle leggi ottiche, priva l’autore della libertà intenzionale; inoltre, intrattenendo con il soggetto un rapporto causale, in essa non si verifica quel “processo di rappresentazione finzionale” che troviamo nell’arte. Per Walton, semplicemente le immagini sono trasparenti: tra il vedere ordinario e quello fotografico non vi è differenza. Molto più interessante, in tal senso, la posizione di Gregory Currie, il quale distingue le rappresentazioni naturali (fotografie) dalle rappresentazioni intenzionali (dipinti). Le prime – e qui risponde a Walton – sono diverse dal vedere ordinario, perché in quest’ultimo esistono relazioni spaziali e temporali tra l’oggetto e noi stessi, ovvero tutta una serie di “informazioni egocentriche” che la fotografia non possiede.
Il volume, che pure ospita brani di Benjamin, Moholy-Nagy, McLuhan, Scharf, Didi-Huberman e Chéroux, chiude la parabola storico-filosofica con due saggi che trattano della fotografia digitale, rispettivamente di Claudio Marra e di Fred Ritchin. Il critico italiano, partendo dai parallelismi con il mondo analogico, ne esplora i meccanismi semiologici e le intenzioni programmatiche. Il secondo, invece, ne sottolinea la portata multimediale: per l’ex picture editor del New York Times Magazine, la nuova fotografia, sbarazzatasi dell’hic et nunc, noema fondante della fotografia tradizionale, e divenuta linkabile, trasmissibile, ricontestualizzabile, ha prodotto ricadute sociali e previsionali assolutamente positive.
Adriana Scalise
Maurizio Guerri e Francesco Parisi (a cura di) – Filosofia della fotografia
Raffaello Cortina, Milano 2013
Pagg. 415, € 29
ISBN 9788860306302
www.raffaellocortina.it
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