Luci sulla ribalta. Intervista con Lucia Baldini
Lavora “tra musica, teatro, cinema, danza e improvvisazione”. L’abbiamo incontrata alla diciassettesima edizione del Festival Inequilibrio di Castiglioncello. Dove ha anche fatto raccontare Hemingway a un gruppo di bambini.
Nella scorsa edizione del Festival Inequilibrio di Castiglioncello hai collaborato a un allestimento site specific de Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway.
Amo mescolare il mio sguardo e la mia creatività a quelli degli altri. Con Roberto Abbiati questo tipo di incontro accade da molti anni con reciproca soddisfazione. Così, ancora una volta, mi ha proposto di collaborare a un progetto: la realizzazione della messa in scena de Il vecchio e il mare. Partendo da un percorso laboratoriale che ha coinvolto dodici bambini e tre adulti, abbiamo costruito le scene, gli strumenti musicali, le installazioni e le azioni performative. Grazie alla partecipazione del maestro Alessandro Nidi, che ha composto le musiche interpretate durante la performance, il lavoro si è mosso su vari livelli: teatrale, sonoro e visivo.
Sei stata per dodici anni la fotografa ufficiale di Carla Fracci. Puoi definire tre cose che quell’esperienza ti ha lasciato?
La collaborazione con la Fracci è stata un’esperienza estremamente formativa, soprattutto per la continuità e per la varietà di situazioni che mi ha portato a vivere. Lavorare con un “monumento della cultura” non è semplice, sia per le altissime aspettative che per la possibilità di cadere negli stereotipi. Ho cercato di costruire un percorso decisamente personale: fotografare esclusivamente in bianco e nero analogico e raccontare la “donna Fracci” piuttosto che “l’icona Fracci”. Attraverso le molteplici interpretazioni di ruoli femminili con cui Carla Fracci si è confrontata ho tratteggiato le ampie possibilità del femminile. Questa collaborazione ha prodotto un libro e una mostra, che hanno avuto ampio consenso e visibilità. In tre parole: è stata una esperienza formativa, creativa e terapeutica.
Com’è avvenuto il tuo incontro con la cultura del tango?
Nel 1989 ero parte della direzione artistica della casa discografica Materiali Sonori, che ha prodotto il disco dei musicisti argentini Luis Rizzo quarteto. In quell’occasione è nato un innamoramento per la cultura argentina che mi ha portata, nell’arco di sedici anni, a collaborare con vari gruppi musicali e compagnie di danza, e alla creazione di quattro libri e di varie mostre aventi come tema o come anima la cultura del tango argentino.
Hai lavorato, tra gli altri, con Richard Galliano, Diamanda Galas e i Tuxedomoon. Che tipo di richieste ti arrivano, solitamente, dai musicisti?
Lavoro nell’ambito della scena musicale dagli anni Ottanta, ho avuto la possibilità di conoscere e collaborare con tantissimi artisti sia italiani che stranieri. Le modalità di relazione sono molto diverse. Spesso è determinante la richiesta di chi propone la collaborazione: la testata musicale o la casa discografica per la quale lavoro. Maggiore è il mio coinvolgimento e migliore è il risultato visivo.
Quali cliché cerchi di evitare, quando operi in ambito musicale?
Qualsiasi sia l’ambito (musicale, teatrale, danza o ricerca) provo a sottrarmi al già visto, allo stereotipo. La creatività è la molla che muove il mio approccio alla costruzione di ogni immagine.
Nei set cinematografici di Carlo Mazzacurati qualche cosa ti ha sorpreso?
Lavorare nel cinema, soprattutto con Carlo Mazzacurati, ha significato entrare in una dimensione creativa e artistica inedita. Mi ha fornito importanti strumenti per cogliere altre profondità e nuovi sguardi. Collaborare con Mazzacurati mi ha dato l’occasione di conoscere più profondamente le sue visioni, la sua grande umanità e il suo interesse a confrontarsi con le idee altrui. Mi ha sorpreso soprattutto vedere il grande lavoro di squadra che c’è in ogni momento della costruzione di un suo film, la sua determinazione e capacità comunicativa. E scoprire come gli attori siano materia plasmabile.
C’è un filo rosso che collega i multiformi ambiti artistici di cui ti occupi?
Probabilmente la curiosità di entrare nell’intimità della creazione altrui, viverla e renderla attraverso il contributo del mio sentire e del mio sguardo. Un gioco del dare e dell’avere molto complice.
Hai iniziato a fotografare negli Anni Ottanta, decennio nel quale si sono ibridate definitivamente le identità “fotografo-puro” e “artista-fotografo”. Come ti muovi, oggi, fra queste due polarità?
Il mio obiettivo è, da sempre, quello di mescolare le creatività e le forme espressive e artistiche. Rischiare nuove strade incontrando nuove esperienze. Non mi ritengo una fotografa pura. I miei lavori hanno sempre una relazione con altre forme espressive: i miei libri hanno spesso avuto un supporto sonoro, le mie foto sono state accompagnate da testi e da scritture, le mie installazioni da video e da musica. Negli ultimi anni, parallelamente al digitale, sperimento con macchine e mezzi fotografici arcaici e “lenti”, che mi permettono di dilatare pensieri e visioni, per creare progetti onirici e sospesi.
Michele Pascarella
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