Le ceneri dell’umanità. Intervista a Pierpaolo Mittica, fotografo umanista
Pierpaolo Mittica, fotografo friulano classe 1971, inaugura domani 13 settembre un’antologica nella nuova galleria Harry Bertoia di Pordenone. 150 immagini che spaziano dal 1997 sino al nuovo progetto, “Living Toxic”. Mittica documenta quanto di più assurdo e spaventoso l'uomo crea contro se stesso, contro la propria incolumità e il proprio benessere. Lo abbiamo intervistato.
Qual è stato l’evento che ti ha coinvolto e ti ha portato ad affrontare temi sociali?
Inizio a fotografare a dodici anni grazie a mio zio, fotografo professionista, Alfredo Fasan di Sacile. Durante una vacanza in Francia mi mette una Polaroid in mano, e lì scopro la fotografia. Poi, negli anni, inizio con la fotografia di viaggio.
La svolta è avvenuta in Vietnam, durante un viaggio di piacere, assieme a degli amici. Giravo da solo causalmente per la città di Da Nang. Mi sono ritrovato in una bidonville costruita su palafitte e ho visto una realtà di cui avevo sempre sentito parlare, ma che non avevo mai visto.
Qual è stato il tuo primo lavoro fotografico?
Era sui Balcani. Dal momento in cui ho scoperto di voler affrontare la fotografia sociale, ci ho messo tre anni per capire e chiarire questo mio percorso, finché nel 1997 ho preso la decisione di partire, direzione Sarajevo. Avevo seguito la guerra nei Balcani e sono rimasto sconvolto dal fatto che a soli seicento chilometri da casa mia ci fosse una guerra sanguinosa e atroce, e che i mezzi di informazioni ne parlassero in modo molto mite.
Nei tuoi reportage c’è molta vicinanza con i “locali”. In che modo ti approcci a loro e come riesci a conquistare la loro fiducia?
Prima di fotografare il soggetto cerco di costruire un legame, un’empatia. Perciò ci metto molto tempo prima di fotografare. Arrivo in un luogo e inizio a parlare con le persone, a farmi conoscere, spiego cosa sto facendo. E poi, inizio a fotografare.
Per un fotografo sociale è importante dedicare gran parte del proprio tempo a costruire legami umani con i soggetti del lavoro fotografico che si decide di affrontare. È una parte del reportage che mi piace molto. Cerco di costruire questi rapporti facendomi supportare da una guida locale o “fixer”, nel gergo fotogiornalistico.
I tuoi lavori fotografici sono sia a colori che in bianco e nero. Come decidi che un certo reportage si esprime meglio in un modo rispetto a un altro?
Quando arrivo sul campo, osservo cosa può rendere di più nella fotografia che cerco in quel momento. È una scelta di solito immediata. Mi è capitato poche volte di non riuscire a scegliere e poi di dover decidere in postproduzione.
Il colore diventa importante quando è fondamentale per la storia che sto raccontando. Se diventa un elemento di distrazione, preferisco eliminarlo. Infatti i miei lavori sono soprattutto in bianco e nero. In Karabash (Living Toxic) il colore è stata una scelta obbligata per documentare uno dei luoghi più inquinati della Terra. O ancora, in Indonesia per i minatori dello zolfo, il giallo, l’arancione e il rosso sono stati elementi cardini del racconto, e quindi la scelta del colore è stata immediata.
Nel momento in cui si sceglie di usare il colore o il bianco e nero, è necessario allineare la mente con questa decisione, perché l’approccio è diverso. Nel bianco e nero è importante la struttura, per cui mi concentro sugli elementi di cui necessito per costruire una fotografia in bianco e nero.
Quali sono stati i tuoi maestri?
Il mio primo maestro è stato mio zio Alfredo Fasan, che mi ha trasmesso la passione, mi ha istruito alla camera oscura e mi ha avvicinato ai primi rudimenti di tecnica. Sicuramente, Giuliano Borghesan, che ho conosciuto qui a Spilimbergo, che frequento e che continua ad aiutarmi.
I miei grandi maestri sono stati Walter Rosenblum, Naomi Rosenblum e Charles Henri Favrod. Loro sono stati i miei mentori, quelli che di più mi hanno aiutato nella fotografia e in questo campo, e con cui ho costruito un rapporto profondo di amicizia negli anni. A loro devo tutto.
In che modo ti documenti per “rinfrescare l’occhio”?
I fotografi da cui traggo ispirazione sono innanzitutto Sebastião Salgado, poi Paolo Pellegrin e James Natchway. Per allenarmi dedico almeno un paio d’ore a settimana a visionare lavori di grandi fotografi che pubblicano in quel momento, per educare l’occhio alla composizione, all’estetica e ai vari elementi che servono per fotografare in modo consapevole.
Come riesci ad approcciarti all’editoria per la pubblicazione dei tuoi lavori, nell’era del cosiddetto citizen journalism?
Oggi è sempre più difficile riuscire nel mestiere di fotogiornalista, proprio per la sempre più numerosa presenza di fotografi e pseudo-fotografi. Con il digitale chiunque, per fortuna o sfortuna, può disporre di una macchina fotografica, assistere e documentare un evento, e poi dare le fotografie ai giornali. È un circolo vizioso, poiché i giornali – un po’ per la crisi e un po’ perché vogliono trarre sempre più profitto – tendono a cercare materiale gratuito. Questo ha fatto crollare moltissimo il livello dell’editoria, perché la qualità delle fotografie è bassa e di conseguenza abbassa la creazione di cultura fotografica, perché le persone poi si abituano a vedere il peggio e non il “bello” della fotografia.
Hai fatto un lungo reportage su Chernobyl e sei stato il primo fotoreporter a entrare nella zona proibita di Fukushima. In che modo riesci ad affrontare la paura e il pericolo che potresti incontrare nel fare il tuo lavoro?
I rischi in questo mestiere, come in tutti gli altri, esistono e sono molti. La spinta per affrontarli li trovo nella passione e nella motivazione. Sicuramente ci sono stati momenti in cui mi sono trovato in difficoltà, come gli arresti che ho subito in Bielorussia, mentre lavoravo sul progetto di Chernobyl, e in quei momenti di sconforto ti chiedi se ne vale la pena. Ma poi la motivazione è sempre più forte, ed è questo che mi porta a continuare.
Sei un fotografo pluripremiato e con menzioni d’onore soprattutto all’estero. Quali sono i limiti del fotogiornalismo italiano?
In Italia di fotogiornalisti bravi e capaci ce ne sono molti. I limiti sono nell’editoria, che non valorizza quelli bravi. Il fotogiornalista non solo deve realizzare lavori fotografici di qualità, ma anzitutto trasmettere un’informazione corretta. Spesso, dalle pubblicazioni che si vedono in giro, mi accorgo che l’informazione in sé è sbagliata. Nel resto del mondo è un po’ diverso. In Giappone, ad esempio, il mestiere del fotografo è molto valorizzato.
Come può un giovane intraprendere questa carriera seriamente?
Ci vuole anzitutto molta modestia. Bisogna lavorare tantissimo, riconoscere sempre i propri limiti, non mollare. Le scuole di fotografia vanno bene per avere una base, ma penso che la cosa più importante sia l’esperienza sul campo e soprattutto il confronto con altri fotografi. Importante è anche trovare un maestro. In questo senso mi ritengo fortunato per gli incontri avuti con i miei mentori.
A che progetti stai lavorando adesso?
La mostra presso la galleria Harry Bertoia di Pordenone racchiude tutti i progetti che ho fatto dal 1997 a oggi. La mostra finisce con un progetto che è appena iniziato, Living Toxic, i luoghi più inquinati al mondo. È un lavoro che ho iniziato a ottobre 2013 e si presenta in quattro parti, incluso il progetto su Fukushima.
Se non ci prendiamo cura della Terra, non ci prendiamo cura neanche di noi stessi. L’essere umano è la presenza peggiore che esista nel mondo. I regni animale e vegetale si regolano da sé e vivono in perfetta armonia. L’essere umano, invece, no. Distrugge e fa cose contro se stesso, contro gli altri e contro la natura. Penso che, per il bene della Terra, il genere umano dovrebbe estinguersi. Per questo è sempre più importante la natura e la sua salvaguardia. Ed è per questo che ho intrapreso questo progetto fotografico: per sensibilizzare e creare più consapevolezza.
Terry Peterle
Pordenone // fino all’11 gennaio 2014
Pierpaolo Mittica – Ashes/Ceneri
a cura di Angelo Bertani
GALLERIA HARRY BERTOIA
Corso Vittorio Emanuele 60
www.artemodernapordenone.it
www.pierpaolomittica.com
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