Reportage di verità e dignità. Firmato Beatrice Mancini
Per una donna vivere in Bangladesh non è facile. Oltre alle condizioni di esistenza, nemmeno l'ambiente naturale le aiuta a cercare di condurre un'esistenza degna di questo nome. L'indagine di Beatrice Mancini vuole proporre tutto questo, utilizzando la fotografia nel suo essere più intimo.
Nel reportage Princess of Waterland di Beatrice Mancini c’è una fotografia in particolare che meglio di altre esprime la finalità del suo lavoro. Lo scatto mostra il corso di un fiume che attraversa, curvandosi e ingrandendosi, una pianura. Questo percorso d’acqua si trova in Bangladesh e qui la fotografa italiana è venuta, in collaborazione con la onlus Il Filo di Juta, per documentare in immagini la condizione femminile.
Il Paese asiatico è ricoperto per il 30% dall’acqua. I fiumi si insinuano nel tessuto urbano e nelle vita dei suoi cittadini non come fonte di vita, bensì quasi come disagio in quanto il valore benefico di queste acque è davvero esiguo. I cittadini del Bangladesh hanno, infatti, a disposizione ben poca acqua potabile e ciò compromette le condizioni igieniche, le coltivazioni e più in generale la loro qualità di vita, soprattutto di bambini e donne. Il focus della Mancini si concentra in particolare sulla loro sopravvivenza precaria. Ciò che emerge dal suo studio, infatti, è una chiara e marcata vena di rassegnazione a una vita disagiata che si evince dalle scelte tecniche della fotografa.
Il reportage Princess of Waterland si compone, infatti, di scatti che propongono sia visioni generali che primissimi piani. Dalla ripresa totale di una donna che cerca di lavorare un campo invaso dall’acqua, al volto frontale di una ragazza oppure a quello di una giovane sfigurato dagli abusi e dalle violenze perpetrate dagli uomini, la fotografia della Mancini pone in risalto la loro lotta quotidiana che, come il letto del fiume si insinua nel territorio, si manifesta in una particolare e sottile velatura nei loro occhi. Lo sguardo, infatti, è il canale narrativo scelto dalla fotografa italiana che appare sempre inquadrato in una totale messa a fuoco, perfettamente contestualizzato e apparire, così, comunicativo, chiaro, drammaticamente espressivo. In Princess of Waterland, inoltre, Mancini utilizza poche volte il contrasto fuoco/fuori fuoco, tranne quando desidera porre in evidenza un elemento in particolare come nel caso della fotografia raffigurante due bambini che si stringono la mano. Solo il centro è a fuoco, per sottolineare, così, la loro reciproca sussistenza.
Dall’idea di fotografia della Mancini non si sottraggono nemmeno gli occhi dei bambini, anche neonati. La caratteristiche curiosità e purezza imperniata nei loro sguardi lascia spazio alla preoccupazione e alla paura. Nelle fotografie del reportage i bambini appaiono intimoriti e spaesati e per risaltare ancora di più questo stato d’essere il contesto è quasi sempre scuro, cupo, così nero da svilire della loro vitalità intrinseca le vesti colorate, le sete variopinte degli indumenti.
Se la fotografia, in conclusione, è anche testimonianza e realtà, Beatrice Mancini persegue uno scopo quasi etimologico di questa arte. Il suo lavoro di reportage manifesta e propone; allo stesso tempo conferisce dignità e spirito di vita ai suoi soggetti. Così facendo e per come è strutturata tecnicamente la sua ricerca queste donne sembrano quasi emanciparsi dalla loro condizione e acquisire nuovamente la loro dignità.
Davide Parpinel
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