Immortalare la scena. Parola a Enrico Fedrigoli
Scambi di Scena incontra Enrico Fedrigoli, fotografo veronese che, dagli Anni Novanta, documenta i lavori di Motus, Teatrino Clandestino, Masque Teatro, Socìetas Raffaello Sanzio, Teatro delle Albe e Valdoca e Fanny & Alexander. Costruendo con molti di loro importanti progetti ed esposizioni, incentrate sul rapporto tra scena e fotografia.
Come sei arrivato al teatro?
Nasco come fotografo di architettura, il mio portfolio è su Berlino, ma già nei primi Anni Ottanta mi occupavo di danza e musica. Al teatro sono arrivato grazie a una intuizione che ho avuto vedendo un estratto da Lucifero della Raffaello Sanzio nella cupola di Interzona a Verona. Lì ho cominciato a ragionare su una possibile ripresa delle architetture delle scenografie teatrali.
Direi quindi che è stata l’architettura a portarmi dentro al teatro.
Quali sono le variabili tecniche che più utilizzi o che determinano l’esito imprevedibile di una tua creazione fotografica?
Il mio studio è partito subito con l’utilizzo del banco ottico, che usavo già per le riprese di architettura; quindi ho dovuto inventarmi un modo di lavorare molto diverso da quello che di solito si utilizza in teatro perché il banco ottico è lento, pesante, ingombrante.
Ritengo fondamentale poi il lavoro in camera oscura per le stampe che io stesso produco.
Mi interessa la tua capacità di manipolare la luce. Come avviene questo processo creativo e con quale obiettivo?
Quando lavoro in teatro mi attengo sempre alle fonti luminose previste dal regista, da lì parte il mio lavoro sulla luce, determinato dai veri tempi di esposizione della lastra che mi permettono di portare alla luce quello che l’occhio umano non percepisce, ma che in realtà accade durante il succedersi delle azioni in scena. Il banco ottico è una scatola con un buco che si apre a tempo. Non si vede nulla al suo interno in fase di ripresa e molto poco in fase di preparazione, quindi si è mangiati dal buio, fotografare diventa una sfida.
In fase di stampa, poi, intervengo nuovamente, scolpendo la luce sotto l’ingranditore, considerando il soggetto sempre tridimensionale e mai bidimensionale.
C’è un rapporto meraviglioso tra lentezza e costruzione dell’immagine. Ce lo spieghi?
Ho sempre pensato, usando questo modo di fotografare, che lentezza, immanenza diano al soggetto fotografato la possibilità di essere veramente se stesso, perché la stanchezza fisica dovuta alle prolungate esposizioni prevale su tutti gli artifizi che esistono davanti all’obiettivo.
Per lavorare in questo modo è fondamentale un rapporto molto intenso con il regista e un grande feeling con gli attori. Vista la durata delle sedute fotografiche, la compagnia teatrale deve essere disponibile a fare delle sedute appositamente per me. È evidente quindi che io raramente lavoro in diretta, tutto viene costruito mentalmente, diventando così una reinterpretazione dell’opera teatrale.
Quale punto di vista scegli per inquadrare lo spettacolo?
In ogni percorso visivo parto dai punti focali dell’opera di cui ho discusso con il regista e poi mi allargo a visioni più laterali.
Come selezioni il momento narrativo da isolare in uno scatto fotografico?
Il momento narrativo adatto è sempre studiato insieme al regista perché la cosa fondamentale nel mio lavoro è che non sono io a fare le immagini, non è il regista, ma l’immagine nasce dalla collaborazione e dall’intesa tra i due ed è uno dei motivi per cui io non potrei lavorare per molte compagnie contemporaneamente.
Perché la scelta di un metodo “vecchio”?
Uso il banco ottico perché è l’unico che permetta una grande qualità di risoluzione dell’immagine e un controllo perfetto delle linee architettoniche.
Per me è stata una sfida usare questo strumento in teatro poiché è l’opposto di quello che uno si aspetterebbe dall’intervento di un fotografo: leggerezza di movimento e velocità di lavoro.
Le tue immagini comprendono le architetture teatrali, non solo a livello di scena ma anche di boccascena. Perché?
Credo che l’opera teatrale che si svolge sotto i nostri occhi non possa prescindere dalla scena architettonica che il regista le ha preparato.
Visivamente un’opera teatrale è fatta di scenografia, azione attoriale, musica, costumi…, la fotografia deve essere capace di rendere tutto ciò che appartiene al campo visivo.
Sei anche direttore della fotografia se le compagnie ritoccano i loro quadri a partire dalle tue immagini oppure no?
Non ho mai assunto il ruolo di direttore della fotografia, ma le mie foto non sono mai puramente documentative e quindi hanno spesso assunto un ruolo interpretativo anche agli occhi dei registi con cui ho lavorato; per loro è stato spesso un rivedersi, un confrontarsi con letture del proprio lavoro magari non previste. In particolare, per alcuni lavori realizzati con Fanny & Alexander, la fotografia è servita a creare scenografie (Ardis2) o a capire il lavoro stesso in fase di creazione (in Heliogabalus, le foto sono state fatte prima della realizzazione dell’opera stessa).
Perché il teatro? Cosa cerchi quando esplori ambienti diversi?
Ogni opera teatrale è un viaggio di esperienza di vita, in luoghi diversi con persone diverse. Sono viaggi che mi affascinano molto.
Ora stai esplorando il tema della donna?
Dal 2002 ho iniziato a esplorare la figura femminile nel teatro con un lavoro insieme a Francesca Proia. Ritengo che le donne abbiano una resistenza fisica e un modo di lavorare ineguagliabile; sono poi certamente affascinato dalla bellezza femminile.
Buscarino ha detto che il teatro è tridimensionale, la fotografia è bidimensionale, nel passaggio dall’uno all’altro si perde tutto e rimane una sottile lamina d’argento. Tu cosa ne pensi?
Buscarino ha anche detto che la fotografia di teatro è una sorta di luce che viene dal buio.
Simone Azzoni
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