Talenti fotografici. Obiettivo su Marco Maria Zanin
Classe 1983, Marco Maria Zanin vive a Padova e a San Paolo, in Brasile. Il suo percorso tra i due mondi inizia già al tempo dell’università, quando si laurea in Lettere Moderne con una tesi sul parallelismo fra due filosofi del XX secolo, Hermann Keyserling e José Enrique Rodó, primo a concepire un’unica identità culturale dell’America del Sud. La seconda laurea è in Relazioni Internazionali e quindi la frequentazione di un master in Psicologia. Un cammino complesso per comprendere le sfumature dell’animo umano e la relazione dell’uomo con il proprio tempo, con il contesto storico in cui gli è dato vivere. Dopo questa formazione accademica, Zanin decide tuttavia di dedicarsi alla fotografia.
“La fotografia è uno degli strumenti che uso per un’indagine umanistica”, racconta Marco Maria Zanin. “Se dovessi pensare a un punto di forza del mio lavoro, è la capacità di innestarsi in contesti più ampi che toccano varie discipline e diverse corde dell’anima umana”.
Partiamo dall’inizio: le prime Cattedrali rurali (2012) e São Paulo (2013), che mi ricorda certe immagini di Siti di Vincenzo Castella, con il quale hai fatto un workshop. Vorrei che ci aiutassi a scorgere un fil rouge tra questi due momenti, in apparenza così diversi.
Considero entrambi i lavori degli studi, un approccio iniziale nei confronti di due mondi fisici e simbolici che ora sto indagando in maniera più approfondita e personale. Sono due archetipi: il primo rappresenta il legame con la terra, con le tradizioni e le radici, il Veneto dei contadini, dei vinti; il secondo invece è il salto nel mondo, il cemento, il dinamismo e i contrasti della metropoli contemporanea. Il fil rouge sta proprio nella loro radicale differenza, poiché rappresentano polarità opposte: muovermi da Padova a San Paolo è un esercizio che io chiamo di “dislocamento”, in cui mi forzo di uscire dal mio contesto per interagire con uno radicalmente opposto e per farli cozzare uno con l’altro, come due pietre focaie.
Hai raccontato che tuo padre da bambino ti diceva: “Sii un sincero cercatore della verità”. Pensi che la verità si possa trovare o che si debba solo cercare?
Credo che la verità sia un concetto assoluto che non si può stringere tra le mani. È però un “principio ordinatore” che, se ci mettiamo in ascolto, funziona come un magnete: ci attrae risuonando dentro di noi, e attiva un viaggio e una ricerca inesauribili che vanno percorsi con grande sincerità.
Nei tuoi lavori c’è bellezza anche di fronte al detrito, è la ricerca di un equilibrio di fronte alla distruzione. Lacuna e equilibrio (2015) non è un semplice lavoro di still life. In queste foto è un rapporto più complesso di natura etica, sociale, umana, sentimentale, storica. I soggetti delle immagini sono parti di edifici demoliti. Nel tuo lavoro, inoltre, è fondamentale la componente della memoria.
Lacuna e equilibrio è un lavoro che io stesso devo ancora decifrare completamente. Anche qui, come accade spesso nella mia ricerca, sono partito da una condizione di rovina, come se fossimo di fronte ai resti del passaggio dell’uragano della modernità. In questo caso ho voluto raccontare San Paolo partendo dalle macerie degli edifici che in tutta la città vengono demoliti e ricostruiti in maniera compulsiva, espressione del rapporto patologico che la società contemporanea ha con il tempo.
Mi pare determinante, in un lavoro come questo, la composizione. È un chiaro riferimento alla pittura di Giorgio Morandi, tanto amato in Brasile.
Ho voluto vedere cosa poteva accadere facendo interagire la dinamica della metropoli con un riferimento della cultura classica italiana, con un autore che ha elevato in una dimensione atemporale e metafisica oggetti poco importanti. In Lacuna e equilibrio ho scelto e raccolto con cura le macerie dalla strada, e con altrettanta cura le ho collocate in un universo staccato dalla sua destinazione primigenia. È un tentativo, di fronte alla perdita, alla distruzione, di costruire una possibile via alternativa per il futuro.
Il titolo portoghese Os Argonautas, di uno dei tuoi lavori più recenti, è un chiaro riferimento alla dimensione classica, mitologica.
Con Os Argonautas ho voluto ricollegare una pratica avvenuta in un determinato contesto storico e geografico con una matrice universale appartenente all’intera comunità umana dalla notte dei tempi. Ho associato il viaggio degli Argonauti guidati da Giasone alla ricerca del Vello d’Oro con quello che intrapresero i migranti veneti alla fine dell’Ottocento. I protagonisti sono gli ultimi, i contadini che non avevano alcuna alternativa di vita, che partirono in massa dalle campagne in cerca di una vita migliore. Il discorso sul mito si mescola con la sfera intima e affettiva delle storie sbiadite dei migranti che ho rintracciato intervistando i discendenti, o con quelle ricostruite da oggetti e vecchie lettere rinvenuti nei mercati di robivecchi. Sono entrato in quelle stanze della memoria in cui il ricordo si mescola con il sogno, e forse ciò che è particolare diventa una matrice universale.
Vogliamo dire due parole su Carvalho, in portoghese “quercia”, ma anche uno dei cognomi più diffusi in Brasile? È l’immagine che apre la nostra intervista, che fa appunto parte di Os Argonautas.
È un castello costruito con vecchie fotografie di una famiglia di migranti. La quercia, la forza, è in contrasto con la fragilità del castello di carte. Il fatto che, oltre a un albero, sia anche un cognome, rimanda al concetto dell’albero genealogico: ancora una volta lavoro sulle radici, sulla fragilità di una memoria che a San Paolo è costantemente a rischio di completa cancellazione. Qui entra in gioco il “demonumento”, titolo della mia personale all’ambasciata del Brasile a Roma l’anno scorso: come in Lacuna e equilibrio, partire dal punto zero per invertire l’entropia della storia, costruire un senso partendo da ciò che è stato cancellato.
Angela Madesani
(con la collaborazione di Silvia Gazzola e Matteo Gnata)
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #30
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