Tra moda e arte. Intervista a Gian Paolo Barbieri
Non solo la fotografia, ma anche il cinema e il teatro hanno contribuito a formare la personalità artistica di Gian Paolo Barbieri, oggi in mostra nella sua Milano. Uno spaccato della sua storia in questa lunga intervista.
Gian Paolo Barbieri arriva veloce, con la consueta eleganza. Appare desideroso di raccontarsi, anche se il tempo è poco e le interviste da concedere sono molte. Fotografo di moda dall’attività più che cinquantennale – nacque a Milano nel 1938 e, sempre nella città lombarda, aprì lo studio nel 1964, appena 26enne – di cose da narrare ne ha davvero molte, alcune note, altre meno note. Così come tanti, tantissimi sono gli scatti che lo hanno condotto a imporsi come uno dei più importanti fotografi fashion al mondo. Alcune sue opere sono state scelte da David Bailey per essere esposte al Victoria and Albert Museum di Londra e al Kunstforum di Vienna. I suoi libri fotografici – come Tahiti Tattoos o Innatural – hanno fatto tendenza nella storia del linguaggio fotografico.
A Milano, negli spazi di 29 Arts in Progress Gallery – che lo rappresenta internazionalmente – è possibile ripercorrere parte di questo suo straordinario cammino creativo attraverso quaranta immagini, esposte nell’ambito di Gian Paolo Barbieri. Occhio, cuore e mente: cinquant’anni di bellezza nella fotografia di moda. Davanti a celebri istantanee – il vintage di Audrey Hepburn (1969) o la famosa immagine velata di Monica Bellucci per D&G (2000) – il fotografo si prepara al racconto. Ma parlare con lui di “foto di moda”, a dieci anni dalla mostra assai significativa che gli fu consacrata a Palazzo Reale a Milano (140 opere, a cura di Martina Corgnati, grazie a 24 Ore Motta Cultura), è davvero riduttivo. Nei suoi scatti è contenuto un codice espressivo che ingloba in sé arte, cinema, teatro, cultura del lusso, nell’abbigliamento e nell’accessorio, il senso del meraviglioso e il mito del viaggio in mari esotici e incontaminati.
A RITROSO NEL TEMPO
Affabile, accetta di ritornare con la mente ai suoi esordi, quando giovanissimo muoveva a Milano i primi passi in cerca di una strada che lo potesse portare verso il futuro. Suo padre era proprietario di uno store di tessuti di alto pregio, e, negli Anni Cinquanta, gli insegnò a riconoscere qualità e tipologie tessili, un know-how che gli avrebbe permesso in seguito di avvicinarsi con competenza e inventiva alle stoffe da usare per le sue scenografie immaginifiche o ai capi firmati dai grandi stilisti – da Saint Laurent a Valentino, da Albini a Versace, da Ferré ad Armani – e indossati da donne belle e famose – da Sophia Loren ad Angelica Houston, da Veruschka a Jerry Hall –, esaltandone, grazie all’obiettivo, le suggestioni esplicite e implicite.
Tutto ciò che Barbieri ha fotografato, con maliziosa curiosità e innata inclinazione agli equilibrismi estetici, si è trasformato, infatti, in “raffigurazione pittorica”, spesso tanto icastica da parere dotata di tridimensionalità scultorea, attingendo spunti dall’arte, dalla fotografia dei maestri che l’hanno preceduto (Horst, per esempio), dal cinema e dal teatro. Ha soprattutto rievocato brani di storia dell’arte, da Caravaggio a Matisse alla Pop Art e oltre. Ecco, in mostra, la fotografia dell’attrice Lilly Bistrattin, adorna dei gioielli Pomellato per un servizio di Vogue Italia (1971), ispirata dalla ritrattistica fiamminga del XV secolo; ecco la campagna Tied to the Mast (primavera-estate 1998) di Vivienne Westwood dedicata invece a La Zattera della Medusa di Théodore Gericault. Nel 2007 Anna Piaggi, celebre giornalista di Vogue, parlando degli Anni Novanta, scrisse: “Sul set di Gian Paolo, il mondo estetico-frivolo diventa artistico-storico e comincia la grande avventura delle campagne per Vivienne Westwood”.
L’arte è stata, ed è ancora, importante, nella sua attività…
A dieci, quindici anni già mi sentivo attratto dall’arte. Ricordo che andavo in una cartoleria di Milano in via Bazzini, vicino a corso Vittorio Emanuele, che vendeva cartoline d’arte. Ne acquistavo una decina a volta, di cui sette-otto riproducevano sempre opere di Paul Gauguin. I Mari del Sud esercitavano già allora un grande fascino su di me. Quando Vogue Francia mi chiese, una ventina di anni dopo, “Dove vuoi andare a lavorare?”, risposi: ‘Tahiti!”. E quando per la prima volta scesi dall’aereo sull’isola mi sentii subito in un luogo a me molto congeniale…
Amo tutta l’arte, dal Rinascimento al contemporaneo, e ho immesso questa mia passione nella fotografia. Prima di scattare mi sono sempre documentato per costruire al meglio l’immagine, realizzando schizzi preliminari. Nulla è casuale, anche se talvolta ci sono immagini che assimilo inconsciamente. Come nel caso de L’Angelo della Vita di Giovanni Segantini, di cui ho fatto mia l’iconografia senza averne conoscenza, ponendo la donna seduta tra i rami. L’arte oggi è molto importante, e la foto stessa è diventata arte. Io, per esempio, ora faccio foto d’arte che costruisco pezzo per pezzo, intervenendo pittoricamente sulla carta fotosensibile e costruendo cornici con legni esotici… Ancora una volta è Gauguin il mio modello. Certo oggi bisogna stare molto attenti, soprattutto dal punto di vista della commercializzazione…
E il cinema, quanto ha contato?
Da piccolo ero già sensibile al grande schermo. Un giorno mio fratello, con cui uscivo di rado, inaspettatamente mi invitò ad andare al cinema con lui. Accettai subito. Così vedemmo insieme Uragano, un film in bianco e nero degli Anni Trenta diretto da John Ford, con Dorothy Lamour e Jon Hall. Mi piacque da morire. Quando ormai frequentavo la prima ragioneria, costituii con un amico e un’amica una banda che chiamammo Il Trio. Diventò per noi un appuntamento fisso. Facevamo il verso a film, opere teatrali, libri di successo (Un tram chiamato desiderio, La Traviata…) e davamo vita a piccole rappresentazioni, e le filmavamo. Io rubavo pezzi di tessuto a mio padre per fare i costumi e le scenografie, avevo taffetà, moiré, faille a portata di mano.
E per quanto riguarda il teatro?
Mi chiamarono al Teatro Manzoni per fare delle comparsate. Nel frattempo studiavo recitazione e dizione… Poi ecco le particine ne La locandiera di Goldoni, messa in scena di Visconti. Il capo comparsa mi aveva detto: “Vieni a fare ‘La Locandiera’!”. “Sei pazzo, finora ho preso lezioni di dizione, ma da lì a recitare il passo è lungo…!”, gli risposi. “Recita quello che vuoi!”. Allora gli sparo La Nave di Gabriele d’Annunzio. Ne La Medea, per la regia di Luchino Visconti, con Sarah Ferrati e Memo Benassi, ebbi una parte non parlata. Passai un anno con Visconti in giro per l’Italia.
Poi nel ’62 ebbi un ruolo secondario in un film di René Clement… Il resto è storia recente. Ho utilizzato spesso citazioni da film eccezionali: Ninotchka di Lubitsch, Casablanca di Curtiz, La dolce vita di Fellini, Caccia al ladro di Hitchcock, Un sogno lungo un giorno di Coppola, per realizzare le mie ambientazioni fotografiche.
Quando avvenne il passaggio dal teatro e dal cinema alla fotografia?
A Roma, a Cinecittà, per vivere iniziai a fare foto ai ragazzi e alle ragazze aspiranti divi. Poi incontrai una persona che si interessò a me e mi chiese: “Cosa fai a Roma?”. “Faccio foto, ma sono solo agli inizi”, risposi. Si trattava di Gustav Zumsteg delle seterie Abraham di Zurigo. Conosceva molte case di moda. ‘Tu hai una sensibilità straordinaria. Devi assolutamente fare la moda”, mi disse. Io non sapevo bene cosa fosse la moda. Ma tornai a Milano e aprii uno studio fotografico.
Fu Tom Kublin a diventare suo maestro.
Sì, certo. Fu sempre Zumsteg a scrivermi invitandomi ad andare subito a Parigi per incontrare Kublin. Mi pregò anche di mettermi l’abito più bello che avessi. Appena raggiunsi Kublin all’Hotel Windsor, lui mi disse: “Così conciato non puoi lavorare, mettiti un maglione e un paio di pantaloni comodi”. Cominciarono i venti giorni più terrificanti della mia vita. Alla fine però lui mi disse: “Grazie, sei stato l’assistente migliore che abbia mai avuto!”. Ma non fu lui il mio vero maestro…
E chi fu allora?
Il mio mentore è sempre stato Richard Avedon. Ho fatto un biglietto apposta per andare a New York e incontrarlo, ma non mi ricevette. Tempo dopo, a Parigi, lo conobbi quasi per caso grazie al direttore di Harper’s Bazaar e di Pablo, un personaggio fuori dalle righe, che allora fu il make up artist di Elizabeth Arden, prediletto da Jackie Onassis.
Avedon mi disse: “Sono un tuo ammiratore”. Io non gli credetti. Poi seppi da Isa Stoppi, una delle mie modelle preferite (insieme ad Alberta Triburzi, Mirella Petteni, Benedetta Barzini e altre), che Avedon teneva appese nel suo studio le foto che io avevo fatto a Isa… Ma tutte queste cose le racconterà Natalia Aspesi, che sta preparando un libro sulla mia vita.
Quali i progetti futuri?
Non vorrei parlarne troppo presto, ma sicuramente il progetto più importante è quello che sto preparando su William Shakespeare nel quarto centenario della sua scomparsa. Prima avevo pensato di ispirarmi alle figure dei grandi viaggiatori: Bruce Chatwin, Luigi Barzini, ciò avrebbe comportato dei viaggi a Katmandu o in Cina, troppo faticoso… Da quando ho venduto la mia casa alle Seychelles non mi sposto più molto volentieri. Di questo progetto ho già realizzato alcuni scatti come quello dedicato a Romeo e Giulietta. Ho raffigurato Giulietta investita da un taxi sulla Fifth Avenue a New York e Romeo che urla dalla disperazione. Poi ho raffigurato Prospero e Desdemona in interpretazioni altrettanto up-to-date. Come mi è sempre piaciuto fare, attingendo al passato e guardando al futuro.
Alessandra Quattordio
Milano // fino al 20 dicembre 2016
Gian Paolo Barbieri – Occhio, cuore e mente: cinquant’anni di bellezza nella fotografia di moda
29 ARTS IN PROGRESS
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