Fotografi d’arte. Carlo Cantini
Settima puntata della nostra inchiesta sui fotografi d’arte. L’elenco è ormai nutrito, fra nomi più noti e doverose riscoperte: Paolo Mussat Sartor, Enrico Cattaneo, Giorgio Colombo, Johnny Ricci, Claudio Abate, Paolo Pellion di Persano. Questa volta ci spostiamo a Firenze per incontrare Carlo Cantini.
Carlo Cantini è nato a Firenze nel 1936. Dopo aver frequentato scuole tecniche, a partire dagli Anni Cinquanta lavora in una zincografia, dove realizza fotoincisioni, cliché, mentre il mondo dell’editoria lo affascina sin da subito. Il luogo di lavoro è la zincografia Fotoincisione Florentia che riproduceva le opere d’arte per SeleArte, la rivista finanziata da Adriano Olivetti e diretta da Carlo Ludovico Ragghianti dal 1952 al 1965. Entra così in rapporto con parecchi artisti e decide di comprare una Rolleiflex 6×6 per poter lavorare in questo particolare ambito. Poco dopo l’alluvione del 1966 incontra Piero Pananti, che stava aprendo la sua galleria di arte contemporanea (inaugurata nel 1968). Fotografa per lui trecento opere, destinate a una vendita all’asta. L’arte lo appassiona sempre di più. Decide di dedicarvisi in toto e alla fine degli Anni Sessanta apre uno studio da fotografo professionista, in Via Santo Spirito, Diladdarno, nel quartiere di San Frediano, dove c’erano ancora parecchie botteghe di artigiani. “Il mio primo studio era a Palazzo Frescobaldi, un luogo di grande fascino. Da lì passavano parecchi antiquari e restauratori, per i quali riproducevo quadri, sculture, oggetti antichi. Oltre a Pananti, altre gallerie mi chiedevano di riprodurre le opere: tra loro, Santacroce e Spagnoli”.
In quegli anni Firenze era una città particolarmente stimolante. Nel 1972 in Via della Vigna Nuova nasce Schema, fondata da Alberto Moretti, Roberto Cesaroni e Raul Dominguez. L’allestimento è firmato da Superstudio. Tra il 1972 e il 1973 prende vita Art/tapes/22 di Maria Gloria Bicocchi, uno dei quattro centri italiani di produzione di videoarte. Nel 1974 apre Zona in Via San Niccolò, uno spazio culturale non profit fondato e condotto da artisti e operatori culturali attivi a Firenze e in Toscana. In quel periodo si affermano anche Area e la casa editrice Exempla. Un momento davvero importante.
In quegli anni ho conosciuto alcuni degli artisti che poi ho seguito nel corso della mia vita professionale: Remo Salvadori, Maurizio Nannucci, Renato Ranaldi, Andrea Granchi, Marco Bagnoli, Sandro Chia e il curatore Pier Luigi Tazzi, che ha fatto conoscere questi artisti a livello internazionale. E poi i protagonisti dell’Architettura radicale. Grazie a loro ho cominciato a comprendere il senso del mio lavoro, che non consisteva semplicemente nel fotografare un quadro ma nell’inventare un lavoro sui singoli artisti. Si respirava un clima effervescente che mi affascinava.
Tra gli artisti che vivevano a Firenze in quegli anni c’era Silvio Loffredo, una singolare personalità che ha lavorato con il cinema in tempi non sospetti, promotore di un assiduo scambio di esperienze fra mondo artistico francese e italiano. Che tipo era?
L’avevo soprannominato “il fantastico”: era un personaggio incredibile. Sono andato per la prima volta nel suo studio, davanti al Battistero, mandato da Pananti per fotografare dei quadri. Lo studio era una sorta di loft, costituito da un grande spazio aperto. Quando sono entrato, lui era seduto nel centro della stanza, a gambe incrociate, a suonare il flauto. Aveva i capelli lunghi, pareva un indiano. Prima di rivolgermi la parola, finì la sua suonata; una volta terminata, mi ha domandato di cosa avessi bisogno. Gli ho spiegato, lui mi ha indicato i quadri da fotografare e ha ripreso a suonare. Sono tornato da lui più volte. Un giorno mi ha chiesto se poteva venire nel mio studio, era incuriosito dal procedimento di stampa. Le sue visite si sono protratte nel corso del tempo. Mi ha parlato spesso della sua ricerca cinematografica underground. Era un uomo geniale, molto amico del poeta Alfonso Gatto. Il mio rapporto con gli artisti, nel corso degli anni, non è stato un semplice rapporto di lavoro, ma una vera e propria condivisione d’interessi. Spesso, la sera, quando finivo di lavorare in studio, andavo da Pananti, da Spagnoli per parlare, per fare incontri.
Un altro incontro importante, nel tuo cammino, è quello con Remo Salvadori.
L’incontro con lui, uomo di pensiero, di grande levatura, ha rappresentato una svolta. Tra noi si è creato un dialogo profondo. Del resto, la sua figura è stata importante anche per altri artisti. Nel 1974 stavo fotografando dei bicchieri del Settecento da un antiquario. Remo, che allora aveva ventisette anni, è venuto nel mio studio ed è rimasto estasiato dalla bellezza di quegli oggetti, che hanno iniziato a far parte del suo lavoro: una forma ritrovata. Mi ha chiesto di creare per lui un Giano bifronte con la fotografia. E io l’ho fatto. La nostra è stata una collaborazione a quattro mani. È sempre stato un amico, mai un cliente. A volte andavo sino a Milano a fotografare i suoi lavori, ero ospite da lui. Eravamo in tale confidenza che ho fatto anche le foto del suo matrimonio.
Attraverso Remo ho conosciuto Marco Bagnoli, un altro artista con il quale si è creato un rapporto di stima e amicizia. Li ho seguiti a Grenoble, quando hanno fatto un lavoro nella vecchia fabbrica della Tour Eiffel. Il mio lavoro con gli artisti è consistito nel fare ordine, nel documentare quello che altrimenti sarebbe andato perso. Mi sento un documentarista.
Con Renato Ranaldi che rapporto c’è?
Ottimo, di cordialità. È uno di quegli artisti che ha dato un segnale forte a Firenze. Non abbiamo lavorato moltissimo insieme, però.
Una delle personalità più intense del mondo dell’arte fiorentino è Maurizio Nannucci.
È un personaggio, un artista fantastico, in grado di creare delle situazioni. Viaggia molto, vede conosce, studia. Dal 1974 al 1985 ha animato Zona, dove si sono tenute molte mostre interessanti di Arte Concettuale, di Arte Povera. Nel 1998 ha dato vita a Base – Progetti per l’arte, in cui operano artisti come Paolo Parisi, Paolo Masi, Remo Salvadori, Marco Bagnoli, Massimo Bartolini, Mario Airò, Enrico Vezzi, Vittorio Cavallini, Yuki Ichihashi. Base è un luogo speciale, che ha notorietà internazionale. In questi anni ho fotografato tutte le loro mostre.
Da quanto si evince dai tuoi ricordi, a Firenze le gallerie sono state soprattutto promosse dagli artisti.
Quelle più d’avanguardia sì.
Hai avuto rapporti anche con la Poesia visiva?
Sì, ma non intensi. Ho lavorato con Luciano Ori e Giuseppe Chiari in particolar modo, qualche volta con Lucia Marcucci, Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti. Un ritratto di quest’ultimo da me realizzato è stato esposto nel 2009 alla casa museo di Rodolfo Siviero, storico dell’arte, che ha avuto un ruolo di grande importanza per la salvaguardia del patrimonio culturale italiano. La casa si trova sui Lungarni e un tempo era stata l’abitazione dello storico dell’arte ebreo Giorgio Castelfranco. Per quell’occasione ho ritratto alcuni personaggi che avevano collaborato con Siviero, appunto.
Hai fatto delle foto per Chiari?
Sì, ma lui si avvaleva anche di altri fotografi. Ho fotografato alcune sue performance con il pianoforte.
Con Alberto Moretti, artista dapprima informale e poi new dada, i cui assemblaggi del 1961 hanno scatenato scandalo e ostilità, che rapporto hai avuto?
Era un personaggio straordinario, non si vantava mai delle sue conoscenze. Nel 1982, per la prima volta, sono andato a New York a vedere una grande mostra sulla Transavanguardia.
Mentre giravo per gallerie di Manhattan ho trovato Alberto Moretti che colloquiava confidenzialmente con Leo Castelli, così me lo ha presentato.
Frequentavi il mondo di Art/tapes/22, luogo fondamentale per la videoarte in Italia e non solo?
Non avevo grandi rapporti con la promotrice Maria Gloria Bicocchi, li avevo piuttosto con sua sorella Maria Novella Conti, che faceva l’artista, della quale ho fotografato i lavori. Erano figlie di Primo Conti, un grande artista fiorentino, che ho avuto modo di conoscere già ai tempi di SeleArte.
Firenze è una città antica, profondamente legata alla sua straordinaria storia. Lavorare nel contemporaneo è difficile?
È difficile sotto l’aspetto economico. Penso che gli artisti contemporanei, quelli che sono rimasti a Firenze, abbiano vissuto questo dramma di non essere riconosciuti in patria. È un rapporto non sempre sereno. Ultimamente avverto un maggiore interesse nei confronti dell’arte contemporanea, della storia degli ultimi cinquant’anni. Il Museo Novecento ne è testimonianza evidente. Da qualche anno a questa parte in piazza della Signoria si mostra arte contemporanea.
La città negli Anni Settanta è stata un’interessante fucina di idee.
Molto, anche perché, nonostante ci fosse una parte molto conservatrice, che opponeva una certa resistenza al nuovo, si sono fatte parecchie cose. Ricordo che la Biennale Internazionale d’Arte Premio del Fiorino in quegli anni si proponeva come contraltare alla Biennale di Venezia. Vi hanno partecipato Renato Ranaldi, Remo Salvadori e Andrea Granchi, il quale più che un artista è un valente organizzatore culturale. Dal 1968 al 1978 l’Unione Fiorentina ha organizzato a Firenze la Biennale Internazionale della Grafica presso Palazzo Strozzi, con lo stesso format del Premio del Fiorino. Organizzatore era Armando Nocentini. In catalogo, in quegli anni, c’erano testi di Giulio Carlo Argan e Achille Bonito Oliva. Ho lavorato anche per il teatro di avanguardia, in particolare per il Teatro Invisibile di Aldo Rostagno, che ha coinvolto tutta la città: i bagni pubblici, i macelli, altri luoghi desueti.
Hai lavorato anche con Burri?
Sì, quando nel 1980 ha realizzato una mostra di grandi teleri a Orsanmichele. In seguito sono andato a trovarlo a Città di Castello, in uno dei suoi grandi studi. Ma era un uomo poco socievole, individualista. Non voleva essere fotografato mentre lavorava. Ci è riuscito solo Ugo Mulas, ma stiamo parlando di un altro mostro sacro. Ho rubato qualche scatto mentre lui non si accorgeva di essere ripreso. Mi piace ricordare qui un altro rapporto importante che ho avuto, quello con Mario Ceroli. A Mario piaci o non piaci. Noi andavamo d’accordo. Ho lavorato parecchio con lui e per lui. Siamo andati anche in giro per l’Italia a vedere le sue mostre: a Bologna, a Milano alla Galleria Marconi.
Attualmente lavori soprattutto per Base.
Devo dire che con le gallerie non c’è molto lavoro, anzi… La crisi ha influito pesantemente anche su questo ambiente. Inoltre, l’avvento del digitale ha stimolato l’idea del “fai da te”. Prima solo un professionista poteva fare questo lavoro. Ora tutti scattano, post-producono. Non saprei proprio che consiglio dare ai giovani che vogliono fare questo mestiere, perché mancano riferimenti.
POSTILLA. EMOZIONI CROMATICHE
Sin dall’inizio del suo cammino nella fotografia, negli Anni Cinquanta, Carlo Cantini si è dedicato alla ricerca personale: ha iniziato con il bianco e nero, con riferimenti a certo Neorealismo. Oggetto dei suoi scatti sono le periferie di Firenze, le figure di un’umanità in fase di cambiamento, ma anche i cartelloni pubblicitari. L’occhio è quello di un osservatore attento, in grado di trasferire le proprie emozioni nell’immagine.
Alcune foto dell’inizio degli Anni Sessanta hanno titoli come Ultimi battitori di grano, Sentimento rurale. Il richiamo è alla tradizione della fotografia italiana dei geniali “dilettanti”, quelli dei quali si era occupato Giuseppe Turroni: i Bertoglio, i Cavalli, i Finazzi, i Bologna. Cantini, inoltre, ama i giochi in camera oscura, come ne L’avventura del 1964, in cui cita Antonioni, o Andiamo dello stesso anno. Ma non mancano i riferimenti a certa fotografia americana, come con le polaroid Marmellata del 1972, che potrebbero essere lette sulla stessa linea di quelle di Walker Evans.
Il fotografo toscano realizza quindi, tra il 1974 e il 1975, il lavoro Hotel Porta Rossa, in cui analizza l’idea di assenza, di sparizione in chiave concettuale, attraverso un gioco di luci che dona al tutto un’allure di mistero. Sono attimi colti e fissati di gesti casuali, compiuti da Remo Salvadori. È come se si trattasse di un film sperimentale, che tanto ricorda un lavoro di quattro anni successivo di Mario Cresci, dedicato a Barbarano Romano. C’è lo studio, l’assimilazione, la metabolizzazione dell’arte, ma anche una fotografia alla Duane Michals. Il valore compositivo è evidente: la sua è un’aspirazione all’ordine compositivo, alla pulizia dell’immagine. Un’aspirazione che troviamo sia nel lavoro professionale che in quello di ricerca.
Negli Anni Ottanta, Cantini desidera allontanarsi dal concetto di forma definita per giungere a una fotografia che possa essere percepita in un altro senso. “Volevo allontanarmi dalla rappresentazione reale della fotografia e creare delle immagini che fossero informali, ma con un’imprescindibile presenza umana. Avevo, infatti, provato con gli oggetti, ma non riuscivo a ottenere risultati soddisfacenti. Cominciai a chiamare delle persone che vennero a posare per me e arrivai a fare delle cose che avevano un senso”. La ricerca dura cinque anni. Il risultato dipende proprio dalla presenza della figura umana che si muove. “Questo nuovo lavoro costituiva per me un cambiamento che aveva rivoluzionato la rappresentazione della fotografia”. Il riferimento iconografico è a due personaggi della mitologia della Grecia classica, Achille e Cassandra. Per fare ciò, si serve della colta guida di Christa Wolf, autrice del volume Cassandra (1983). Sono studi sul colore, sulla forma che si dilata, si muove, rendendosi irriconoscibile. Il tutto parte comunque dalla realtà, come per il fotodinamismo futurista. Indaga il colore come veicolo di emozioni per poi passare ai concetti di genere, al maschile e al femminile.
Nel 1985 Carlo Cantini trasferisce lo studio in via dei Renai, in un altro contesto straordinario. Prima di occupare lo studio realizza una serie di immagini relative a una presenza che entra in uno spazio abbandonato per parecchi anni: almeno cinque o sei. Nei locali dagli alti soffitti, con i pavimenti in legno, i profili dorati sulle pareti, trova un dipinto datato 1885: una combinazione straordinaria, legata a una dimensione storica. Scrive Annamaria Amonaci nel catalogo pubblicato da Silvana Editoriale sul lavoro di Cantini: “Con il nuovo studio, in ambienti vasti di primo Ottocento, si rinnovarono le emozioni sul sogno della storia, che dettero corpo a fotografie pensate come ‘isole dell’anima’”. Cantini percepisce in quel luogo strane sensazioni che si riversano nelle immagini fotografiche, gli pare di essere già stato in quel luogo. Decide così di dare un segnale di questo evento e realizza dei ritratti di una donna molto mascolina, avvolta in un drappo rosso. La figura si aggira per gli ambienti che sarebbero diventati lo studio del fotografo. In alcune immagini sono strumenti musicali, in altri frutta in decomposizione. È un lavoro sul tempo, strettamente legato al significato stesso del linguaggio fotografico, come già era stato per l’intimo Nostalgia (1980). Titolo della serie di lavori è L’isola ritrovata. Attraverso l’immagine è possibile ritrovare, appunto rivivere, ripercorrere sentieri di un passato che diviene memoria personale e collettiva.
Angela Madesani
con la collaborazione di Greta Valente
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #35
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