Basilico prima di Basilico. In mostra a Torino
La mostra allestita da Photo & Contemporary a Torino esplora le radici del lavoro fotografico di Gabriele Basilico; la compagna di vita e critica della fotografia Giovanna Calvenzi ne recupera gli scatti realizzati durante i loro tre viaggi iniziatici compiuti fra il 1969 e il 1971.
Alcune fotografie Gabriele Basilico (Milano, 1944-2013) le ha stampate all’epoca in cui, ancora studente di architettura, viaggiava con Giovanna Calvenzi e alcuni amici in terre lontane, raggiunte sulla 124 Fiat del padre con una tenda a due posti, un piumone materasso e alcune Nikon F. Tre viaggi avventurosi, come si usava in un mondo senza il web né i cellulari, tradotti in fotografia. Una fotografia che, nell’arco di tre anni, diventa sempre più centrale nella riflessione di Basilico, il quale ammira i fotografi Magnum e la mostra organizzata da Photo & Contemporary a Torino denota quanto ne fosse attratto. Ma il futuro ritrattista delle fabbriche di Milano o della Beirut crivellata dai colpi della guerra è già dentro i volumi, gli spazi e la temporalità dell’architettura. E che fosse già l’architettura il suo riferimento lo dice la stessa Calvenzi, testimone oculare di quel percorso che porta Basilico alla fotografia urbana: “Gabriele sperava di pubblicare queste fotografie su Domus o su Abitare, non ha mai pensato di farlo su altre riviste che non fossero di architettura”. Prima del “brand” Basilico, il giovane Gabriele usa il taccuino di viaggio come laboratorio per strutturare un linguaggio e un’identità professionale.
1969. L’IMPRINTING A GLASGOW
La rassegna torinese ha il pregio di descrivere questa iniziazione di Basilico; Calvenzi racconta: “Gabriele a Glasgow ha scattato un solo rullino, c’erano queste bambine che giocavano in un quartiere periferico che stava per essere raso al suolo. È stato qui che Basilico ha capito che avrebbe fotografato per il resto della sua vita”. Il rullino comprende uno scatto di viadotto che sarà la locandina della prima mostra di Basilico. Ma sono gli sguardi innocenti e diretti delle bambine (una con una gamba di legno), colte sullo sfondo di una città tetra, a suggerire qualcosa al fotografo, convincendolo che fotografare è far vedere. La povertà innocente si scontra con la rudezza dell’assenza di architettura. Una rudezza che Basilico ritroverà in altro modo nella serie di Beirut (invitata da Robert Storr alla Biennale del 2007), quando ormai avrà abbandonato l’uomo come immagine per dedicarsi alla città come sua metafora e allegoria. Quando avrà ben chiaro come narrare quel teatro che è l’architettura.
Come per Zavattini due decenni prima, i bambini sono ciò che salva, ciò che impone un atteggiamento etico verso l’architettura: essi rappresentano quel futuro che ogni architetto deve preservare, proteggere. L’architettura deve dare una casa al futuro combattendo a modo suo la distopia possibile di periferie urbane come quella di Glasgow del 1969.
PERSEPOLI, LA CITTÀ ROVINA
Il secondo viaggio, dalla Jugoslavia all’Iran, impone paesaggi sconfinati e Basilico li affronta incitato dalla visione di un servizio sulla Cappadocia. Ma sarà Persepoli, l’Atene persiana costruita da Dario il Grande e data alle fiamme da Alessandro Magno, ad assumere, con le sue rovine immerse nel deserto, il senso di una città teatro. Qui Basilico esercita per la prima volta uno sguardo fisso, monumentale, oggettivo e oggettivante. Le prospettive a perdita d’occhio, il ritmo di linee e volumi, aprono a una temporalità eternata, a una fotografia come sguardo atemporale.
La città sacra di Qom ripropone invece l’urgenza della figura umana, ma sotto forma di una popolazione che si raduna attorno all’obiettivo come per accusare e scacciare l’occhio indiscreto del turista occidentale. Dalla città Basilico, Giovanna e gli amici che viaggiano con loro saranno gentilmente espulsi dal capo della polizia, preoccupato per le reazioni violente dei cittadini. A Teheran, Basilico fotografa piccole masse di persone, donne velate, e interni di moschee e palazzi, con le decorazioni in oro e i motivi astratti dei tappeti. Una piscina che sembra scavata in una moschea.
MAROCCO. DAL PAESAGGIO ALL’ARCHITETTURA
Anche il Marocco, primo progetto fotografico propriamente detto e mai realizzato (e ora pubblicato insieme all’Iran da Humboldt Books), sarà un ultimo viaggio di piacere prima dei tantissimi viaggi di lavoro fatti con Giovanna. Il Marocco è un guado per passare dal paesaggio, e la figura, all’architettura. È il 1971, Basilico vuole fare un libro, scatta molti rullini e crea un timone, chiaro e ordinato. Il libro non vedrà la luce, forse avrebbe potuto condurre Basilico verso un altro tipo di fotografia che questa mostra, così ricca di suggestioni, racconta nel suo status nascendi; una fotografia destinata a ritornare nella serie Dancing in Emilia (1978), ora in mostra da Nonostante Marras, a Milano. Sotto uno scatto di questa serie Basilico annota: “Reportage? Ritratto? Oppure foto antropologica?”. Forse, la sua fotografia è rimasta tutte e tre le cose: ha soltanto usato come soggetto le architetture al posto degli uomini, trattandole come avrebbe trattato questi ultimi.
– Nicola Davide Angerame
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