Storia di una fotoreporter. Intervista ad Adelaide Di Nunzio

Perché diventare fotoreporter al giorno d’oggi, cosa fotografare per ottenere una bella fotografia? Adelaide Di Nunzio racconta il suo lavoro, la sua professione e le sue scelte. Un mestiere non del tutto artistico come si pensa, ma molto attuale e d’informazione. Un lavoro che l’ha portata da Napoli a Milano, dall’Italia alla Germania. Sempre alla ricerca di storie da raccontare.

Nel 2016 Adelaide Di Nunzio (Napoli, 1978) ha attirato l’attenzione di curiosi e professionisti del settore con il reportage Unfinished – Architetture criminali, un viaggio nel Sud Italia tra beni confiscati e opere mai portate a termine. Un sud che conosce bene. L’abbiamo intervistata per capire meglio il suo lavoro e il suo pensiero fotografico.

Perché fare la fotoreporter? Cosa ti ha spinto a trasformare questa passione in una professione?
Robert Capa e Grazia Neri. Durante il mio stage presso l’agenzia di Grazia Neri a Milano mi sono imbattuta in una mostra di Robert Capa. In quell’occasione, tra le meravigliose foto del Maestro, mi sono soffermata su una in particolare, di cui purtroppo non ricordo il titolo e che non è molto nota. La foto rappresentava un uomo rigettato dal mare, steso sulla riva di una spiaggia, probabilmente morto. Intorno al soggetto c’erano altri resti, conchiglie e oggetti vari. Questa foto, per quanto semplice, tecnicamente perfetta, provocò in me una riflessione: quest’uomo era identico a tutte le altre cose che il mare aveva riportato sulla terra, era un residuo con una storia alle spalle. Durante lo stesso periodo partecipai a un incontro con Grazia Neri, la quale parlava dei vari generi fotografici e terminò il suo discorso con un riferimento al fotogiornalismo, elevandolo alla massima forma fotografica di altruismo verso le persone e verso la storia. Sono fotoreporter perché la denuncia fotografica è un atto d’amore verso la società.

Adelaide Di Nunzio, Unfinished. Architetture criminali

Adelaide Di Nunzio, Unfinished. Architetture criminali

Molti sostengono che la professione di fotoreporter sia un lavoro solitario. Cosa ne pensi?
Non lo so, dipende dal fotografo, dalla capacità di costruire rapporti con le persone e l’ambiente. Dipende anche da che cosa si intende per “solitudine”. Se concepiamo il processo creativo e l’osservazione come uno stato necessario per creare un buon lavoro, questo avviene solitamente durante una riflessione in uno stato di “solitudine”.

Quali sono gli elementi essenziali che deve avere una fotografia?
La fotografia deve essere espressione di una riflessione profonda e deve permettere allo spettatore di provare stimoli evocativi verso altri concetti. La foto non è rappresentazione, non è palpabile, è immateriale. Oltre a essere studio, tecnica ed estetica. Non tutti possono fotografare. È un lavoro di coscienza.

C’è un fotografo che più invidi al mondo o una fotografia che avresti voluto scattare tu?
Molti fotografi e molte fotografie, ma più che altro avrei voluto vivere le loro storie e le loro ricerche. Ciò che è bello della fotografia è la ricerca della stessa da parte dell’autore. Mi piace molto per esempio il progetto di Anders Patersen, Cafè Lehmitz. Il fotografo è dentro quella storia, ne fa parte e allo stesso tempo la osserva e la fotografa, come uno “straniamento teatrale” una parte di sé vive, l’altra osserva e scatta, e una terza comanda e coordina le altre due azioni.

Adelaide Di Nunzio, Unfinished. Architetture criminali

Adelaide Di Nunzio, Unfinished. Architetture criminali

Con il reportage Unfinished – Architecture Criminali hai fatto un viaggio nel Sud Italia, tra beni confiscati e opere mai terminate. La mostra non è per nulla passata inosservata. Cosa credi abbia attirato l’attenzione?
Spero sia arrivato un messaggio diverso riguardo all’abbandono del paesaggio, all’influenza della criminalità e dell’illegalità sul degrado urbano del nostro Paese. Ho cercato di visualizzare degli elementi simbolici, che ho chiamato “Sacro – Kitsch”, per identificare un nuovo stile pop che si è diffuso nelle nostre terre. Ho messo in rilievo, con forte espressività estetica, ciò che normalmente diviene con il passare del tempo invisibile, evocando quasi dei punti turistici del Sud Italia dove andare a visitare le tracce storiche del degrado.

Ci sono state reazioni forti a queste fotografie?
Le persone sono state attirate dall’argomento e ne hanno tratto delle riflessioni importanti. Anche la stampa si è interessata molto a una tipologia di lavoro evocativo più che di sola denuncia.

Ti chiedi mai se la storia, il percorso che scegli di raccontare con le persone possa avere un messaggio civile importante e chiaro?  
Cerco di non banalizzare, cerco attraverso le immagini di trasmettere messaggi emotivi, non seguo la rappresentazione ma l’evocazione. Per esempio, nel caso di una fotografia connessa a un atto di violenza, preferisco raccontare gli effetti, ciò che si riflette sulla società, sui volti, negli occhi, nell’anima ecc.

Adelaide Di Nunzio, Unfinished. Architetture criminali

Adelaide Di Nunzio, Unfinished. Architetture criminali

La società e i suoi aspetti quasi di degrado ricorrono spesso nei tuoi scatti. Come mai? Cosa ti interessa veramente raccontare e come mai il più delle volte preferisci il bianco e nero al colore?
Mi interessano l’umano, i suoi errori, le sue amarezze, i suoi desideri, la condivisione e la compassione, il riflesso delle azioni sulla società, le molteplici vesti che l’umano si crea nel mondo – architetture, mode o modalità di rappresentazione di sé stessi. Il degrado è spesso la conseguenza dell’abbandono, esso è dovuto alla non cura da parte dei governi e degli uomini stessi. Mi rende triste e cerco di farlo emergere. In un ritratto, ho il desiderio di scoprire la profondità dei momenti di silenzio dell’essere umano, dove lo sguardo non è rivolto verso l’esterno ma osserva i propri pensieri.

Sei spesso all’estero per lavoro. Di cosa ti stai occupando adesso?
Sto progettando un libro di testi e foto sulla mia visione della criminalità e dell’illegalità e sul riflesso che hanno sulla società e sul territorio. Un libro diario non legato alla cronaca degli eventi, ma alla riflessione e all’invisibile. Sto completando delle immagini e selezionando quelle del passato. In questo periodo vivo tra la Germania e l’Italia. Proprio in Germania ho conosciuto la fotografa Bettina Flitner, la foto editor Marialuisa Plassmann e il fotografo e foto editor Wolfgang Zurborn. L’incontro con loro mi sta permettendo di scoprire nuovi aspetti del mio lavoro e di arricchire e modificare le mie scelte. Vorrei ampliare con un futuro lavoro fotografico la mia visone sull’illegalità e il degrado in Europa, nei posti che riteniamo d’oro e nelle cattedrali funzionanti, insomma scoprire un po’ di polvere sotto il tappeto.

Margherita Bordino

www.adelaidedinunzio.it

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Margherita Bordino

Margherita Bordino

Classe 1989. Calabrese trapiantata a Roma, prima per il giornalismo d’inchiesta e poi per la settima arte. Vive per scrivere e scrive per vivere, se possibile di cinema o politica. Con la valigia in mano tutto l’anno, quasi sempre in…

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