Delfino Sisto Legnani. Intervista a chi fotografa il design
Dietro tante fotografie che riguardano il design – dai prodotti alle persone che li producono – c’è lui, Delfino Sisto Legnani. Da un equilibrio perfetto fra documentazione e creatività è nata una cifra stilistica che è tanto riconoscibile quanto in continua evoluzione. Tutti i dettagli e tutta la storia in questa intervista.
Come ti sei avvicinato alla fotografia industriale?
Non l’ho fatto pensando a un genere specifico. Dopo l’università, l’incontro con Ramak Fazel ha segnato il mio momento di svolta: un casuale invito a una festa nel suo studio, e nel giro di poche ore mi sono ritrovato a lavorare da lui come assistente, lasciando il mio lavoro da architetto. Da quel momento la fotografia è diventata la mia professione.
Come coniughi l’esigenza documentativa con quella creativa?
Il mio impegno è sempre stato orientato alla costruzione di una mia poetica (una ricerca che prosegue e si trasforma continuamente) ovvero di una chiave linguistica e interpretativa personale che mi permettesse di raccontare in modo autoriale gli oggetti all’interno del contesto industriale, o artigianale, nel quale sono plasmati. Così facendo mi sono reso conto che il mio punto di vista aveva un potenziale tale da poter offrire – a me e ai fruitori delle mie immagini – una lettura critica del prodotto o dell’architettura. Iscrivendomi, più tardi, all’Ordine dei Giornalisti ho capito che la mia volontà di critica non era solo un’esigenza ma anche un dovere deontologico.
Quali sono i punti fermi – nella composizione, nella scelta della luce – che contribuiscono a definire la tua cifra stilistica?
Il mio punto fermo, per ora, è non avere punti fermi. Sicuramente la mia formazione da architetto, e dunque l’approccio progettuale a ogni lavoro, è frutto di un metodo acquisito nell’ambito dell’architettura: ogni lavoro parte da una fase di studio approfondito del tema, per capirne l’essenza e le potenziali connessioni con altri temi. Poi c’è una parte di art direction, più creativa, legato allo sviluppo di un concept per il quale tendo a lasciarmi guidare dalla sensibilità mia e del team di persone coinvolte nel progetto. Così facendo, gli esiti estetici del progetto possono essere molte variabili: una sommatoria di cui non riesco a definire, da un punto di vista oggettivo, una sintesi. Per questo trovo sempre molto interessante ascoltare le critiche, o gli elogi, altrui sul mio lavoro.
Dal punto di vista tecnico, che accorgimenti adotti?
Anche dal punto di vista tecnico non credo di avere punti fissi, ma tendenzialmente preferisco utilizzare focali più strette possibili: tento sempre di fotografare la porzione di spazio che m’interessa con l’ottica più lunga (meno grandangolare) possibile. Così facendo riesco a separare i piani focali, un approccio che a mio parere conferisce allo scatto una certa eleganza. Relativamente alla luce, quando possibile, utilizzo delle torce flash di rimbalzo su pareti, soffitti o qualsiasi altro elemento anche solo vagamente riflettente mi capiti a tiro. Dal punto di vista formale una costante è il radicale cambio di scala: amo associare immagini di dettaglio con viste più ampie anche in modo brusco e non convenzionale. Forse tutti questi elementi contribuiscono a definire un codice, che è totalmente condiviso con Marco Cappelletti, il mio socio, col quale da tre anni felicemente collaboro e grazie al quale lo studio è in costante crescita.
Nei tuoi ritratti spazi dal dialogo tra il designer e il suo prodotto, alle design divas nei loro magazzini, ai ritratti tradizionalmente intesi. In ognuna di queste foto c’è più di un’immagine: c’è una storia.
La possibilità di entrare in contatto con personaggi di vario genere è il bello del mio lavoro: ogni giorno incontro persone differenti ed è sempre e comunque interessante, nel bene e nel male. Capita di dover ritrarre l’artigiano, l’impiegato, il CEO della multinazionale, l’artista del momento, ognuno di essi mi lascia qualcosa e mi piace pensare di lasciare loro qualcosa attraverso la mia fotografia. Per questo nel ritratto tento sempre di inserire dei layer che vadano oltre il registrare la faccia di una persona, che ne mostrino il carattere, la storia e i valori che porta con sé. Inoltre, spesso tendo a contestualizzare il soggetto nel suo habitat naturale e in pose solo apparentemente non convenzionali. Questo tipo di approccio cerco di riportarlo anche nello stil life, non concentrandomi troppo sulla forma ma provando a raccontare la storia dell’oggetto.
Dallo stress test a coloro che il design lo realizzano (materialmente, in fabbrica): da dove nasce la scelta di portare il tuo sguardo “dietro le quinte” del prodotto?
La comprensione di un progetto può avvenire solo attraverso un intimo rapporto di conoscenza del processo attraverso il quale si realizza: capirne le motivazioni progettuali e vedere come viene materialmente plasmato. Quando possibile, spingo i magazine o i clienti a optare per la scelta radicale di comunicare i prodotti non in studio o location ma all’interno del contesto in cui vengono realizzati. Credo che l’estetica dei luoghi di produzione aiuti molto nella comunicazione del progetto. Probabilmente è un motivo per poter soddisfare la mia curiosità di vedere gli artigiani o le macchine all’opera, curiosità che credo di condividere con coloro che osserveranno le immagini che produco.
Ci racconti due esperienze, o incontri, che nel tuo lavoro sono state determinanti?
Mi devo ripetere: l’incontro con Ramak Fazel. Ramak mi ha generosamente mostrato il suo lavoro e il suo modo di vivere la professione. L’incontro con lui mi ha spinto a uscire dalla comfort zone per lanciarmi in un ambito sconosciuto e, grazie a ciò che lui mi ha trasmesso, ho cavalcato spesso anche in modo imprudente. Ho iniziato facendo ritratti a designer e architetti per Vogue Italia durante il Salone del Mobile, nel 2011. Non avevo mai studiato fotografia e non ero tecnicamente preparato ma molto volenteroso, sperimentale e ricettivo, tant’è che nel giro di poco tempo ho messo insieme un buon portfolio di ritratti e mi sono proposto a Domus, magazine col quale poi ho collaborato per anni sotto la stupenda direzione di Joseph Grima con l’art direction di Marco Ferrari. Da lì ho iniziato a collaborare anche con altri magazine, con art director, architetti, artisti e PR, incontrando persone che professionalmente e umanamente mi hanno dato molto: Nathalie Du Pasquier, Angela Rui, Ipollito Pestellini, Susanna Cucco, le PS, Valentina Ciuffi. Poi ci sono alcuni rapporti nati sul lavoro che hanno valicato i confini professionali per diventare vere e proprie amicizie, come con Giovanna Silva e Davide Giannella con i quali curo MEGA, uno spazio indipendente dove trovano visibilità progetti artistici e culturali di difficile collocazione.
Sei un osservatore privilegiato del mondo del design e in particolare del “sistema Milano”: come lo vedi cambiare e come ti sembra il suo stato di salute?
Credo che sia un buon momento. Indipendentemente dagli indicatori economici, vedo un grande interesse per tematiche e contenuti che in passato sono stati troppo trascurati in favore di speculazioni puramente estetiche o economiche. Mi sembra di notare, ad esempio, che durante il Salone del Mobile il pubblico stesso non vada più solo in cerca del gadget o dell’esperienza da poter postare sui social media, ma sia sempre più alla ricerca di contenuti e di qualità. Così facendo, le aziende, che per loro natura assecondano la domanda del pubblico, mi pare si trovino a poter investire maggiormente in ricerca e sviluppo, presentando progetti ancora più validi.
– Flavia Chiavaroli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #36 – Speciale Design
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